Recensione: Guy Debord, La società dello spettacolo

Guy Debord, La società dello spettacolo
Baldini e Castoldi, pp. 183, euro 10
traduzione Paolo Salvadori e Fabio Vasari

Il libro di Debord è stato scritto nel lontano 1967 (gli appunti con cui si chiude questa edizione sono del 1989) e, per essere sintetici, possiamo dire che la sua lettura lascia un’impressione di voluta forzatura. Sia chiaro da subito che l’impressione è di chi legge a più di quarant’anni dalla stesura; probabilmente gli intenti di Debord erano coincidenti con il testo.
E’ un libro che espone tesi estreme per ottenere il riconoscimento della validità di almeno una parte di esse; o, se non proprio di una parte, perché in ogni sistema ben formato non vi è parte che esista senza il tutto, della sua tesi centrale. Esporremo quindi di seguito questa tesi attraverso le parti che la compongono riconoscendo ad esse una parte di validità ma, dove necessario, segnalando le forzature.
In breve Debord sostiene che l’ordine esistente è un ordine ‘spettacolare’ ovvero che l’ordine che struttura la manifestazione degli esseri sociali variamente intesi si basa in toto sull’apparenza. Questo significa, in termini più semplici, che la politica non riesce più a modificare le leggi automatiche che regolano lo svolgimento di quest’ordine. L’avvicendarsi dei vari gruppi di potere a capo della società è determinato da lotte economiche; queste lotte economiche sono a loro volta determinate dall’apparenza dei fenomeni economici che agisce su questi soggetti. In definitiva tutto è ridotto all’apparenza, dietro la quale agisce una ben precisa causalità economica. A differenza però dalla teoria marxiana classica la causalità economica è spiegata dall’apparire dello spettacolo; le leggi economiche da cause divengono effetti. Dato che l’economia può essere intesa come la Regola che determina le modalità di interazione tra le persone, una politica che abbia perso il controllo dell’economia smette di avere un ruolo nella vita delle persone; la politica ha smesso di essere politica.
La politica ha perso la sua presa sul reale. Per giustificare la propria esistenza essa, come la merce, deve compiere un ribaltamento della sua giustificazione. Non più organizzazione che permette di raggiungere un’esistenza diversa, e migliore, ma apparato che permette lo svolgersi dell’esistente; ma non tutto l’esistente esiste, solo ciò che è reso visibile. Attraverso la spettacolarizzazione di parti scelte del reale, la politica giustifica la propria esistenza.
Mostrare un prodotto attraverso la pubblicità significa:
1, allontanare il pubblico dall’idea che esista un vero diverso dall’apparenza pubblicizzata
2, alimentare l’idea falsa che l’unico vero è ciò che si vede direttamente, senza mediazione altra da quella pubblicitaria; è la rinuncia alla mediazione della ragione.
Lo spettacolo in generale è un’inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente che spodesta la vita.
Già da questo incipit è chiara l’estremizzazione che Debord compie. La spettacolarizzazione della vita sociale è da sempre all’opera, ma con l’avvento della comunicazione di massa ha assunto proporzioni prima inimmaginabili. A dirla tutta, la comunicazione di massa si accoppia alla perfezione alla produzione di massa; solo tramite essa è possibile creare prodotti che imitano a tal punto il vero da riuscire a sostituirsi ad esso, prima, per fare persino dimenticare l’esistenza di un vero, poi.
La spettacolarizzazione della vita sociale si innesta compiutamente sulla gestione dei rapporti di produzione esistente nel sistema capitalistico. Quindi non si può intendere la società dello spettacolo solo come un insieme di immagini; essa è un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. La vita sociale è un insieme di rapporti di produzione, e questi rapporti sono mediati attraverso le immagini che gli individui si restituiscono. Le immagini prendono gradualmente il posto della realtà che le esprime. Lo spettacolo non può essere compreso come un abuso del mondo visivo, prodotto dalle tecniche di diffusione massiva delle immagini. Esso è invece una Weltanschaung divenuta effettiva, tradotta materialmente. E’ una visione del mondo che si è oggettivata. Questo concetto rimanda facilmente alla semi-formazione, la Halbbildung di cui parla Adorno. Ciò dimostra anche il limite intrinseco all’analisi di Debord. Solo dall’interno della spettacolarizzazione è possibile prender coscienza dei suoi effetti e cercare di limitarli, stante il fatto che la spettacolarizzazione fa parte del comportamento sociale dell’individuo storicamente inteso.
Una società che utilizza come medium privilegiato lo spettacolo, la spettacolarizzazione, diviene una società largamente irreale. Se fino agli albori della società industriale possiamo credere esistesse una realtà quasi immediata cui si sovrapponeva, in alcuni settori limitati, la sua traduzione in spettacolo, oggi la realtà della società s’è traslata nello spettacolo per la quasi totalità. Lo spettacolo non è quindi più il supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. E’ il cuore dell’irrealismo della società reale. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa irrealtà, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.
L’irrealtà della vita al di fuori della produzione – stante che la produzione è vissuta il più delle volte come alienazione – è vissuta come noia. Al di fuori della produzione, alienante, il tempo deve essere occupato con attività spettacolari, alienanti esse pure. In qualche modo la produzione capitalistica è riuscita a colonizzare tutto il tempo di vita dell’individuo, trasformandolo in una macchina perpetua per la produzione di plusvalore. L’individuo è spinto dalla produzione a consumare il proprio tempo. Ma se noi siamo, esistiamo, in quanto proprietari del nostro tempo consumarlo in queste attività significa negare la vita. Questa negazione della vita, che è sempre stata parzialmente attiva nella società, è diventata tanto preponderante da risultare direttamente visibile. In altre parole, la società dello spettacolo porta all’estremo una tendenza implicita nell’organizzazione sociale dell’uomo; questo significa che lo spettacolo non è in sé male, mentre una società che si basa su di esso lo diventa.
Seconda parte
Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. E’ indiscutibile perché il pensiero è naturalmente orientato al positivo, a ciò che si presenta percettivamente in modo evidente. Pensare al negativo è un’attività difficile e poco praticata; è però la sola che permette di intravedere attraverso il muro dell’esistente una possibilità per esistere in un modo diverso. La società attuale, conformata attorno ai mezzi di produzione e consumo, non dice niente di più di questo, che ‘ciò che appare è buono, ciò che è buono appare.’ Non vi è in essa un luogo altro da quello esistente, dove si possa mirare di giungere. L’attitudine che il mondo attuale esige per principio è un’accettazione passiva, che ha di fatto già ottenuto con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza. Gioca poi fortemente a suo vantaggio l’inaccessibilità del tutto. Il tutto è diventato talmente complicato, talmente lontano dalla possibilità di comprensione dell’uomo qualunque che viene lasciato a svilupparsi senza alcun tentativo di intromissione. Come diceva Gunther Anders, l’uomo è antiquato rispetto all’esistente .
Secondo Debord, la prima fase del dominio dell’economia sulla vita sociale aveva determinato nella definizione di ogni realizzazione umana un’evidente degradazione dell’essere in avere. Come in altri luoghi di questo libro, occorre prendere cum grano salis le affermazioni dell’autore. E’ chiaro che non è mai esistita una fase dell’umanità in cui l’uomo era solo essere, anche se può essere vero che oggi, per molti, esiste solo l’avere. Diciamo che con l’avvento della tecnologia mediato dalla ragione, l’uomo ha iniziato ad alienarsi. Questa alienazione è stata anche, in parte, positiva. Solamente sganciandosi dai risultati diretti della propria attività, sganciando la propria sopravvivenza da questi risultati, l’uomo ha potuto cominciare ad accumulare un po’ di avere. L’equilibrio tra essere e avere è infatti fondamentale, non potendo vivere in nessuna delle due polarità. Nel meccanismo dialettico dell’equilibrio tra essere e avere è subentrata una variabile esterna, che ha reso impossibile l’equilibrio. Stiamo parlando della tecnica, ovviamente; attraverso di essa l’uomo ha gradualmente assunto il controllo della natura – l’essere – trasformandola in avere. Le conseguenze antropologiche di questo passaggio sono numerose; una delle più appariscenti è che all’interno del genere umano non è più accettata come valida alcuna gerarchia dell’essere. L’unica gerarchizzazione possibile è in funzione del denaro. Il denaro va esibito e quindi ogni attività sociale viene ad essere inglobata nella sfera dello spettacolo. Si ha così un passaggio dall’avere all’apparire. La fase presente dell’occupazione totale della vita sociale da parte dei risultati accumulati dell’economia conduce a uno slittamento generalizzato dell’avere nell’apparire, da cui ogni avere effettivo deve trarre il suo prestigio immediato e la sua funzione ultima. Nello stesso tempo ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale, modellata da questa. Anche qui però Debord esagera, riducendo la realtà individuale alla realtà sociale. Nietzsche diceva che il solitario può scegliere se farsi divorare dagli altri o divorarsi da solo; sembra che Debord non preveda questa possibilità. Pare dirci che ogni singolarità può solo apparire, mai manifestarsi in essenza, e che, se le è permesso di apparire, è soltanto in ciò che essa non è.
Credo che a questo punto sia necessaria una precisazione. Quando Debord afferma che la realtà è ridotta a spettacolo fa un’affermazione valida a livello teorico; in pratica però, la realtà non è solo spettacolo, per il semplice motivo che non esiste un solo spettacolo, mentre sicuramente esiste una sola realtà. In altri termini, vivere il reale come assolutamente spettacolare dipende dalla lettura che si è in grado di fornire della realtà. Non tutti, sicuramente, sono acuti e avvertiti come Debord; i più cascano senza remissione possibile tra le maglie della spettacolarizzazione ad ogni costo. Dato che la realtà è stata scomposta in molti spettacoli, per avere un discorso comune sulla realtà, un discorso accessibile a tutti, e quindi un discorso politico, occorre trovare un minimo comune denominatore tra i vari spettacoli. Tale elemento comune è appunto, minimo, è il più semplice tra quelli disponibili. Questo perché tutti capiscono i conti della serva, pochi l’etica nicciana. Se possono coesistere diversi livelli di interpretazione della realtà, a livello pubblico ne domina uno solo, quello più semplice. L’effetto indesiderato dell’applicazione di questo principio indubbiamente democratico è il crollo della democrazia. In una democrazia in cui ogni discorso è equivalente e la sua rilevanza dipende solo dalla sua visibilità (spettacolarità) scompare la possibilità di discorrere della realtà.
Ma l’uomo di livello più semplice, quello che capisce solo i conti della serva, ha bisogno di una garanzia circa la realtà della realtà; se lo spettacolo è tutto ciò che resta della realtà, nello spettacolo deve essere possibile trovare il divino: lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, è l’ultima componente della vita sociale che consente di mantenere l’illusione della trascendenza. Lo spettacolo è ciò che permette al popolo di continuare a sognare una pur minima possibilità di giustizia: individuale, si badi bene, non sociale.
Parte terza
Quindi il popolo ha di fatto abbandonato la speranza di redenzione, che è e deve essere solo di gruppo, non individuale. E’ pur vero che si possono nutrire seri dubbi sull’esistenza storica di una speranza condivisa in tal senso. Anche in epoche di minor spettacolarizzazione del reale le lotte che si sono sviluppate erano solo tra gruppi ristretti attorno a questioni di gestione del potere. Ora, comunque, non vi è più alcuna possibilità di lotta di gruppo, di sviluppare discorsi alternativi circa la gestione del potere. Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. E’ l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza. Il potere si rappresenta in maniera veridica e diretta perché si sa non espugnabile, o, perlomeno, non sostituibile. Ogni cambio di mano del potere è semplicemente il passaggio ad un diverso gestore dello spettacolo.
Lo spettacolo non teme di essere scoperto, perché sa di avere prodotto individui solitari che si rivolgono solo a lui come fonte di ogni salvezza. Ove un tempo l’esperienza che formava l’individuo e coalizzava il gruppo era la trasformazione del reale attraverso il lavoro, oggi c’è solo la produzione di entità separate che a stento riconoscono l’umanità dei propri simili. Oggi non esiste più, o esiste per pochi che comunque non hanno voce in capitolo, come si può dedurre dal discorso circa l’influenza della minoranza meno qualificata sul tutto, un lavoro principale attorno al quale una persona possa individuarsi. La perdita della funzione centrale del lavoro nella vita dell’individuo sposta il suo interesse verso le modalità offerte dalla società dello spettacolo per occupare il tempo. Queste modalità sono in essenza passive, rispecchiando solo i valori e i sistemi di produzione invalsi nella società del consumo. Spostando il senso della vita verso le attività svolte nel tempo di non lavoro non si recupera il tempo perso nell’alienazione del lavoro perché il mondo a cui si rivolgono queste attività non lavorative è pur sempre modellato dalle prime. Nulla dell’attività estorta nel lavoro si può ritrovare nella sottomissione al suo risultato.
Qui vediamo ancora all’opera il lavoro di estremizzazione di Debord. Esistono sicuramente una serie di attività, diverse per ciascuno, compiendo le quali non ci si riduce a propagine isolata del sistema produttivo. Tutto sta a trovarle. L’inconveniente, tecnico diciamo, che l’avanzare sempre più irresistibile di questa società mostra chiaramente, è che diventa sempre più difficile isolarsi dal tutto per compiere la valutazione soggettiva necessaria a liberarsi di questo stato di cose. Non è vero, contrariamente a quanto pensava Debord, che questo criterio di isolamento progressivo debba essere preso a parametro unico del futuro sviluppo dell’umanità; diciamo che c’è una parte consistente che lo subisce, ma ci sono anche molte altre parti, piccole e magari non significative, che se ne possono rendere indipendenti. Diciamo che è in atto una lotta tra piccoli gruppi per definire le modalità corrette di letture della realtà; in questo momento il gruppo più basso quanto a complessità di lettura sta avendo la meglio; e, che è peggio, sta uniformando a sé i livelli dei gruppi rimanenti. Lo spettacolo in questo modo ritrova sempre più concretamente i propri presupposti.
Come già anticipato lo spettacolo nasce quando l’uomo si individua rispetto al resto della natura. Lo stato attuale dello spettacolo è la misura esatta di quanto l’uomo si sia astratto dalla natura attraverso il suo sistema di produzione. La soluzione retrograda, verso un recupero di un’unitarietà mitica, è impossibile. Occorre imparare a stare in bilico tra un’individuazione alienante ed un’unitarietà irreale; si noti come si ripropone l’eterno dilemma di Nietzsche sul destino del solitario. La stessa posizione del dilemma lascia però intuire la soluzione: la scelta. L’individuo può, riconosciuta la finzione insita nella rappresentazione del mondo data dallo spettacolo, scegliere di non adeguarvisi interamente. La strada verso l’individuazione dei propri bisogni, che è in fondo anche la strada che Freud prevedeva come indice del successo dell’analisi, è costantemente aperta. Intraprenderla è un compito individuale, anche se ovviamente è più facile farlo se il clima sociale favorisce una scelta del genere, e quindi spinge tanti gruppi a prendere quella strada. Per Debord e la sua lettura marxista dei processi sociali ciò semplicemente non è concepibile. Anche una sola parte di spettacolo che agisce sul singolo, lo lascia facile preda della dinamica dell’isolamento e a quel punto non c’è più salvezza possibile. La strada verso la sconfitta della società dello spettacolo può essere percorsa solo in gruppo.
E’ evidente qui l’opposizione di Debord alla filosofia esistenzialista, tanto in voga nella Francia di quegl’anni. Il suo odio per Sartre non deve però fare dimenticare che l’esistenzialismo è stato in grado di cogliere il senso filosofico della caduta dell’essere, e di tentare di fornire una soluzione pragmatica ad essa. Si può anche essere contrari a tale soluzione, ma occorre comunque trovare una risposta. Debord non fornisce ovviamente, non potrebbe mai farlo, una risposta generale, filosofica, né una particolare, esistenziale. Sceglie la soluzione dei piccoli gruppi auto organizzati, di cui parlerà alla fine. A guardarla da vicina pare un tentativo di conciliare marxismo, individuo e ragione, tre aspetti del mondo che teoricamente dovrebbero coesistere ma che, in pratica, raramente si incontrano. Ma lo vedremo al termine.
Per ora restiamo alla tanto vagheggiata unità con la natura; quando Debord dice che più l’uomo separato dal suo prodotto, il lavoratore anonimo della macchina capitalista, produce egli stesso i dettagli del suo mondo, più quest’uomo vede aumentare la sua separatezza dal mondo reale fa un gioco sporco con le parole. Non esiste un uomo il cui prodotto sia in assoluto distinto dalle sue capacità. E’ tutta una questione di gradazione. Quanto più i mezzi di produzione che una persona usa le consentono di restare vicino ai suoi prodotti, tanto più questa persona sarà indifferenziata da essi, troverà in essi la propria identità. Attraverso il lavoro è quindi possibile, sempre attraverso una scelta individuale, individuare delle qualità costitutive della propria realtà; in questo modo l’alienazione del lavoro riesce a produrre qualità soggettiva e non solo, come vorrebbe Debord, quantità alienante.
E’ pur vero che, ad uno sguardo superficiale, lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale, ovvero ogni tipo di socialità vissuta diviene subito mercificata in termini spettacolari; definiamo con Debord questo meccanismo sopravvivenza aumentata, ovvero il fatto che al di là dalla soddisfazione dei bisogni primari la società capitalistica chiede costantemente un incremento dei bisogni ritenuti vitali da soddisfare. Questo incremento, sotto gli occhi di tutti quelli che abbiano la capacità di paragonare la vita degli anni ’60-’70 a quella di oggi, è ciò che mantiene in costante movimento l’economia della società, contro l’ideale dello stato stazionario. Occorre però tenere presente che l’uomo è un animale in grado di osservarsi; oltre ad assumere un comportamento spettacolare potrà anche assumerne uno antispettacolare. In questo Debord aveva ragione: occorre una consapevole reazione al meccanismo di spettacolarizzazione ad ogni costo.
Un primo momento di una battaglia del genere, contro la riduzione di tutto a spettacolo, è la battaglia contro il valore di scambio. E’ molto difficile all’interno del capitalismo contrastare il valore di scambio, proprio perché attraverso di esso l’uomo si è liberato della sua base animale, della sua indifferenziazione dalla natura. Scopo del capitalismo è l’abbassamento tendenziale del valore d’uso. Attraverso questo meccanismo si sviluppa una nuova forma di privazione all’interno della sopravvivenza aumentata, una privazione interamente dovuta alla mancanza di valore di scambio. Detto in termini più semplici, l’uomo comune detiene in proprio valore d’uso; se il valore d’uso viene costantemente svalutato in funzione dell’incremento dell’importanza del valore di scambio, la sopravvivenza fisica dell’uomo comune è in pericolo, ancor più minacciata è però la sua sopravvivenza aumentata, la sola che l’uomo comune ritiene importante. La sopravvivenza aumentata non si è minimamente affrancata dalla vecchia penuria poiché esige la partecipazione della grande maggioranza degli uomini, come lavoratori salariati, al proseguimento infinito del suo sforzo; e poiché ciascuno sa chi vi si deve sottomettere o morire. La realtà di questo ricatto, il fatto che l’uso nella sua forma più povera (mangiare, abitare) non esiste più se non imprigionato nella ricchezza illusoria della sopravvivenza aumentata, è la base reale dell’accettazione dell’illusione in generale nel consumo delle merci moderne. Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni, l’illusione che attraverso la merce vedrà soddisfatto il senso di penuria che deriva dal fatto di vivere nella sopravvivenza aumentata. La merce è questa illusione reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale.
Lo spettacolo è la forma di manifestazione assunta dalla merce del mercato postmoderno in cui confluiscono sia il valore d’uso sia il valore di scambio. Ma la superficialità dello spettacolo fa sì che in esso il valore d’uso scompaia a tutto vantaggio del valore di scambio. Ogni cosa è scambiabile con un’altra, indipendentemente dal suo valore d’uso, dalla sua vera essenza. Questo è il risultato della fungibilità generale veicolata dal denaro. Il denaro è l’equivalente generale che azzera tendenzialmente il valore d’uso a vantaggio del valore di scambio.
Occorre però prestare attenzione alle parole. Tendenzialmente significa in teoria; in pratica non si ha mai, o perlomeno mai per la totalità della popolazione, che il valore d’uso scompaia. Se è vero nella realtà dello spettacolo che il valore d’uso, che era implicitamente compreso nel valore di scambio, deve essere ora proclamato esplicitamente ciò avviene perché la sua realtà effettiva viene erosa dall’economia mercantile sovrasviluppata. Ciò vale in assoluto nella società dello spettacolo; tale assoluto è sempre meno vero quanta meno realtà spettacolare si accetta all’interno della comunità in cui si vive.
Parte quarta
Il capitalismo, in maniera automatica – non c’è un burattinaio che muove i fili del capitale – tende ad occupare con la merce tutti gli spazi sociali. Della merce noi non vediamo che il suo sostituto eclatante, lo spettacolo. Attraverso una diffusione capillare degli oggetti di consumo il capitale ha creato un ambiente culturale adatto al suo predominio. Al suo interno continuano però ad esistere sacche di resistenza in cui questo modello è accettato solo in minima parte. Il punto è che per sviluppare una teoria antispettacolare è necessario avere subito la presenza di questo modello. Esso si muove con gli oggetti, che apparendo naturalmente nei luoghi deputati alla vendita, fanno credere all’uomo comune che sia naturale, implicato dalla realtà. Non si percepisce direttamente che esso è solo una dinamica socialmente scelta. Non percependo questa possibilità di scelta, la classe dirigente di ogni paese ha già a disposizione un modello di vita da offrire al popolo. Ma tale modello non è portatore di libertà di consumo, solo di possibilità di consumo.
La società dello spettacolo non è libera. Essa illude della libertà le sue parti, senza mai arrivare a mostrarla loro. La libertà riguarda l’aspetto qualitativo della vita, mentre la società dello spettacolo, ovvero le merci che la sostanziano, può solo riguardare la quantità. La scelta imposta dalla società dello spettacolo è tra beni diversi ma uguali, non tra beni utili e inutili. L’abbondanza spettacolare offre allo spettatore la possibilità di scegliere tra spettacoli diversi e/o di ricoprire ruoli diversi all’interno di tali spettacoli. Ma ogni spettacolo è espressione dello spettacolo più generale e quindi l’adesione ad esso precipita l’individuo nella trivialità quantitativa delle merci. Questo passo, a lungo andare, riduce l’uomo alle merci che utilizza. L’uomo che lotta nel mondo per affermare le sue capacità non fa altro che lottare per affermare la bontà delle merci che utilizza per affermare se stesso. Le lotte commerciali tra i vari potentati dell’economia internazionale non sono altro che una lotta particolare utilizzata dalle singole merci per fare trionfare il concetto di merce in generale. La merce determinata lotta per se stessa, non può riconoscere le altre, pretende di imporsi dappertutto come se fosse la sola. Lo spettacolo è allora il canto epico di questo cimento, a cui nessun canto d’Ilio potrebbe por fine. Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro passioni. E’ in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, nell’incoscienza realizza in effetti qualcosa di più elevato: il divenir-mondo della merce, che è altrettanto il divenir-merce del mondo. Così, per un’astuzia della ragione mercantile, il particolare della merce si logora combattendo, mentre la forma merce va verso la sua realizzazione assoluta.
La trasformazione sociale indotta da questo meccanismo si è verificata gradualmente ed è legata alla scomparsa teorica del valore d’uso. La merce abbondante non riesce più, in quanto singola merce, a ripagare il soggetto utilizzatore; la gratificazione che essa fornisce è insufficiente. Il singolo oggetto merceologico non viene più quindi ricercato, ma si ricerca l’utilizzo di merce sempre diverse che, in quanto merce, è in se stessa finalizzata. I ripetuti casi di attesa generata dal sistema di informazione per l’uscita di nuovi prodotti, stanno appunto a dimostrare questo. Le persone non aspettano più un nuovo strumento per cambiare il proprio modo di vivere, aspettano una nuova merce in quanto promessa della felicità possibile nel loro attuale modo di vivere. La produzione ha cessato di essere trasformazione della realtà, per ridursi a conferma dell’esistente. Gli oggetti che vengono ripetutamente proposti agli acquirenti non sono altro che decorazioni superflue ad una vita che non si accontenta più di sussistere. Il gadget esprime il fatto che, nel momento in cui la massa delle merci scivola verso l’aberrazione, l’aberrante stesso diventa una merce speciale.
L’aberrante non è un bisogno naturale, è chiaro; altrettanto chiaro però che allo pseudo-bisogno imposto nel consumo moderno non può essere opposto alcun bisogno o desiderio autentico che non sia stato anch’esso formato dalla società o dalla sua storia. Torniamo quindi a quanto detto prima. Per arrivare alla consapevolezza della natura spettacolare della società è necessario averne vissuto gli effetti, averli riconosciuti nocivi ed avere scelto di rimuoverli. Tale rimozione non può però che essere parziale. Non vi sono bisogni assolutamente naturali recuperabili, anche se esistono bisogni totalmente sociali e quindi totalmente illusori. La merce abbondante sta appunto a significare la rottura assoluta di uno sviluppo organico dei bisogni sociali, secondo Debord. Come già detto, occorre domandarsi se tale sviluppo organico sia mai esistito. La accumulazione meccanica della merce libera un artificiale illimitato, di fronte al quale il desiderio vivente resta disarmato. La potenza cumulativa di un artificiale indipendente determina ovunque la falsificazione della vita sociale.
Parte quinta
Debord sostiene che il progetto di superamento dell’economia prospettato dal marxismo verso una società ove siano i bisogni dell’uomo a regolare i rapporti umani rimane improntato ad una prospettiva borghese. Tale limite è dovuto al necessario passaggio della forza rivoluzionaria da una semplice prassi ad una teoria. Tale passaggio rende deterministico il marxismo. Questo determinismo diviene economico prima che storico, ovvero quantitativo prima che qualitativo; quindi, anch’esso diventa parte del processo di spettacolarizzazione. Fu proprio l’aspetto deterministico scientifico del pensiero di Marx la breccia attraverso la quale penetrò il processo di ideologizzazione mentre egli era ancora vivo, e a maggior ragione nell’eredità teorica lasciata al movimento operaio. Una volta di più l’avvento del soggetto della storia viene rinviato a più tardi, a quando si riuscirà a formare il giusto soggetto dell’economia. Ed è la scienza astorica per eccellenza, l’economia, che sempre più largamente tende a garantire la necessità della propria negazione futura. Ma in tal modo viene esclusa dal campo della visione teorica la pratica rivoluzionaria che è la sola verità di questa negazione. Così l’importante è di studiare pazientemente lo sviluppo economico, e di ammetterne ancora, con tranquillità hegeliana, il dolore, ciò che resta, nel suo risultato, un ‘cimitero di buone intenzioni’. Si scopre che ora, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva sempre troppo presto, e dovrà essere insegnata.
Il punto è che il marxismo nasce, come ogni movimento ideologico, dalla prassi; dopo un inizio di questo tipo, se il movimento sopravvive, occorre fissare alcuni punti teorici. In breve tali punti divengono delle verità assolute, e quindi astoriche. Qualunque movimento che si sviluppi attorno a verità astoriche non può consentire una vera rivoluzione. E’ nella lotta storica stessa che bisogna realizzare la fusione della conoscenza e dell’azione, in modo tale che ciascuno di questi termini riponga nell’altro al garanzia della propria verità.
Ho già avuto modo di osservare tempo fa l’onnipresenza di questo dilemma nei grandi pensatori contemporanei. Di fronte ad una società che gradualmente distrugge le proprie fondamenta essi vedono la necessità di una forte teoria accompagnata da una prassi decisa. Non sempre questi pensatori però sembrano accorgersi del fatto che la società attuale non vuole né teorie forti né comportamenti estremi; o meglio, rifiuta di primo acchito tali posizioni, salvo poi inglobarle in forma attenuata. Il rischio di ogni teoria è diventare merce. Debord è riuscito con successo ad evitare questo passaggio mantenendo la sua teorizzazione talmente lontana dalla realtà di massa da renderla intangibile da parte della comunicazione di massa. Il suo è un pensiero astratto adatto a piccoli gruppi. I grandi gruppi invece, e la classe che dirige tali gruppi, hanno dovuto forzatamente adottare un pensiero diviso dalla prassi. Tale pensiero contraddice l’intento originario di Marx e fa ricadere costoro nella contraddizione della teoria che detta le regole alla prassi. La conquista del monopolio statale della rappresentanza e della difesa del potere operaio, che giustificò il partito bolscevico, lo fece diventare ciò che era: il partito dei proprietari del proletariato, che eliminava per l’essenziale le forme precedenti di proprietà ma non la struttura economica che su tali forme si basava.
A questo punto il marxismo di stato al pari del capitalismo diviene un fine, non più un mezzo per trasformare le coscienze. Il potere delle burocrazie non ritiene più necessaria una giustificazione ideologica al proprio comportamento La menzogna che non è più contraddetta diviene follia. I regimi del marxismo di stato sono gradatamente scivolati nella follia. La realtà così come il fine da raggiungere attraverso l’applicazione della teoria, cioè della teoria che è nello stesso momento in cui viene pronunciata prassi, vengono dissolti nella proclamazione ideologica totalitaria: tutto ciò che essa dice è tutto ciò che è. Cessa di esistere un altrove da raggiungere attraverso la prassi rivoluzionaria. E’ un primitivismo locale dello spettacolo, il cui ruolo è tuttavia essenziale nello sviluppo dello spettacolo mondiale. L’ideologia che qui si materializza non ha trasformato economicamente il mondo, come il capitalismo giunto allo stadio dell’abbondanza; ha solamente trasformato poliziescamente la percezione. Questa maniera di condizionare la percezione è un arcaismo, facilmente lasciato indietro dalla società dello spettacolo più avanzata nella quale per l’individuo integrato diventa impossibile vedere. Oltre a non riuscire a vedere, l’individuo è anche ingannato dalle proposte politiche che più riescono a solleticare la parte sensibile allo spettacolo che vi è in ognuno. Solo così è possibile spiegare il ritorno del fascismo anteguerra. Esso è una resurrezione violenta del mito, che esige la partecipazione a una comunità definita da pseudovalori arcaici; la razza, il sangue, il capo. Il fascismo è l’arcaismo tecnicamente equipaggiato. Il surrogato decomposto del mito che esso presenta è ripreso nel contesto spettacolare dei mezzi di condizionamento e d’illusione più moderni. Così, esso è uno dei fattori che entrano nella formazione dello spettacolare moderno, nella misura stessa in cui la parte avuta nella distruzione del vecchio movimento operaio ne fa una delle potenze fondatrici della società presente; ma poiché il fascismo risulta anche una delle forme più costose di mantenimento dell’ordine capitalista, era normale che dovesse abbandonare il fronte della scena occupato dai ruoli maggiori degli Stati Capitalisti, per essere soppiantato da forme più razionali e più forti di questo ordine stesso. Allo stesso modo, il potere burocratico ha dovuto cedere il passo al potere del capitale. Fascismo e marxismo di stato sono i due predecessori necessari dell’attuale stato delle cose.
Parte sesta
La struttura burocratica di controllo della società è andata costruendosi gradualmente. Finché l’uomo non ha pensato la sequenza temporale nella quale si colloca, il tempo stesso esisteva solo come fenomeno fisico. La creazione di una società ha spinto l’uomo a temporalizzare se stesso e, nello stesso tempo, ad umanizzare il tempo. Il tempo umanizzato diviene un tempo irreversibile, all’interno del quale si svolge una storia. Quando la storia inizia ad essere raccontata si affaccia anche la scrittura, quale mezzo che media tra le coscienze. La scrittura, che si rende indipendente dal linguaggio – fissa gli stessi eventi che raccontati non possono permanere – è il primo strumento di controllo della società. Attraverso la scrittura viene fornito un senso alla storia.
Ma fornire un senso allo svolgersi delle vicende storiche che vedono coinvolte le classi dominanti – i sottostanti sono esclusi dalla storia lineare, restano imbrigliati nello svolgimento ciclico locale – ha avuto delle conseguenze impreviste. L’estensione del loro potere storico effettivo procede insieme a una volgarizzazione del possesso mitico illusorio. In altre parole, quanto più i potenti si dimostrano in grado, anche solo attraverso la ricostruzione narrativa, di fornire un senso all’apparente casualità del mondo tanto più essi perdono le qualità mitiche appartenenti a coloro i quali amministrano le regole della ciclicità naturale. Il potere divenuto storico ha perso il suo legame con la divinità. Ne consegue che il ragionamento sulla storia è, inseparabilmente, ragionamento sul potere e sullo sviluppo delle religioni.
Le religioni politeiste caratterizzano un’umanità ancora arcaica, ancora quasi completamente legata alla ciclicità della natura; ogni divinità sovraintende ad un piccola parte del reale e tutte insieme costituiscono un grande ordine trascendente. Il passaggio alle monoteiste rappresenta l’ingresso definitivo della storia lineare, scritta, nella mentalità dell’uomo comune: le religioni monoteiste sono state un compromesso fra il mito e la storia, fra il tempo ciclico ancora dominante nella produzione e il tempo irreversibile in cui si affrontano e si ricompongono i popoli.
Anche le religioni sono quindi una struttura di gestione del potere e sottostanno, come le altre strutture, al processo di volgarizzazione. Quanto più esse paiono non in grado di ristabilire l’ordine mitico, tanto più devono aspettarsi movimenti imprevedibili da parte della società. Dopo l’anno mille, la mancata dissoluzione dell’ordine vigente per l’ingresso nel regno di Dio segnala l’ulteriore progresso del tempo lineare, non ciclico, nella vita lavorativa. Questo ulteriore strappo alle consuetudini antiche – non la fine del mondo, ovviamente – è percepito, dalla coscienza legata all’ordine antico, come un’ossessione della morte. L’uomo medioevale è ossessionato dalla morte in quanto unico mezzo per recuperare, almeno in forma malinconica, l’unitarietà del mondo mitico. Le grandi rivolte dei contadini d’Europa sono anche il loro tentativo di risposta alla storia che li strappava violentemente al sonno patriarcale fino ad allora garantito dalla tutela feudale.
La fine del medioevo si può identificare con la nascita della borghesia, di una classe sociale cioè i cui valori sono diametralmente opposti a quelli della tradizione. La lotta tra monarchia e borghesia può essere vista anche in questo modo, come la lotta tra il tentativo di mantenere dei privilegi indipendenti dalle condizioni storiche e la richiesta che i privilegi dipendano dalla forza economica. Per rendere ciò possibile è stato necessario introdurre un nuovo valore tra quelli riconosciuti socialmente: il lavoro. La nascente borghesia si lega al lavoro come unico strumento in grado di scalzare la vecchia classe nobiliare. E’ al tempo del lavoro, per la prima volta affrancato dalla ciclicità, che la borghesia è legata. Il lavoro è divenuto, con la borghesia, lavoro che trasforma le condizioni storiche. La borghesia è la prima classe dominante per cui il lavoro sia un valore.
Fino al momento dell’ingresso della borghesia in quanto classe agente nel processo storico, la storia stessa era interpretata e tramandata in quanto movimento lineare dovuto ai soli individui appartenenti alla classe dominante. Ora la storia viene percepita come movimento di massa in cui il singolo può emergere; al contempo l’indipendenza acquisita dal singolo implica la sua sacrificabilità alle leggi impersonali della storia e la sua valorizzazione tramite il lavoro. Il fatto che il singolo è trascurabile è l’elemento ‘inconscio’ che la borghesia accetta come conseguenza inevitabile dello sviluppo. In pratica ora è l’economia politica a determinare le sorti dell’umanità, non più principi etici o religiosi. L’applicazione severa dei criteri economici alla società fa sì che sotto molti aspetti, quelli più facilmente avvertiti dal popolo, essa risulti ancor più disumana della società teocratica precedente. La lunga serie di tentate rivolte che si sono susseguite nella storia può essere letta come il tentativo, illusorio, di ripristinare delle condizioni umane – mitiche e quindi mai esistite realmente – di vita.
La vita effettiva invece ha visto l’affermarsi del tempo non ciclico, lineare che diventa tempo delle cose. La particolarità del tempo delle cose, propriamente il tempo della merce e del capitale, è che non tollera al suo interno il tempo ciclico, propriamente il tempo dell’uomo. Il tempo vissuto individualmente è tempo non quantificabile ovvero che non può essere tradotto in equivalenti; e gli equivalenti sono denaro. Tutto ciò che non è traducibile in denaro tende ad essere escluso, eliminato, dalla lista delle attività sociali permesse. Come già preannunciato in apertura, occorre leggere Debord cum grano salis. Quella che lui descrive è una tendenza generale, e ovviamente lui, in quanto marxista, parla per tendenze generali. In un’ottica più individualista occorre sottolineare che, proprio all’interno della completa riduzione del tempo dell’uomo a tempo delle cose, è possibile ritrovare spazi di libertà più o meno ampi, a patto di fare uso della ragione. Solo la ragione, da non confondersi con la razionalità, permette di dedicarsi alle attività non permesse. L’impegno personale, il lavoro personale e non esclusivamente la lotta di classe possono permettere di ritrovare un senso umano all’interno delle merci.
Parte settima
Il mercato odierno tenta in vari modi di ripristinare una parvenza di tempo ciclico ad uso e consumo della popolazione; ma ciò che offre è un tempo pseudo ciclico. Questo tempo è in realtà il travestimento consumabile del tempo-merce della produzione. Le festività che costellano l’esistenza di ciascuno sono in effetti finte festività e la finzione è la sovrabbondanza costante di merce sia al loro interno sia al loro esterno. In altre parole, la festività si deve connotare per la disponibilità nel tempo ad essa dedicato di oggetti non reperibili in altri momenti della vita. Oggetti di questo genere non esistono più, perché ogni oggetto è in ogni momento disponibile in base alle disponibilità economiche del soggetto. Le feste non sono più feste perché è cambiata la natura del tempo nel quale si svolgono. Perché possano continuare ad aver luogo occorre che esse vengano pubblicizzate ad arte, di modo che le persone riescano a comprendere il loro valore di scambio. Ad un tempo reale con alto valore d’uso s’è sostituito un tempo pubblicizzato con alto valore di scambio.
A questo punto Debord porge un’importante, anche se forse non intenzionale, suggerimento. A pagina 145 dice infatti che il vissuto individuale della vita quotidiana separata resta senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato, il quale non si trova consegnato da nessuna parte. Non si comunica. E’ incompreso e dimenticato, a beneficio della falsa memoria spettacolare del non-memorabile. Occorrerà quindi rivolgersi a questo vissuto individuale aconcettuale per trovare un significato all’esistenza; ma questo rivolgersi all’aconcettuale non può che essere concettuale, poiché ogni fenomeno è tale solo per il soggetto. Si dimostra quindi l’esigenza di una scelta pragmatica di fondo rivolta verso un solo tipo di fenomeni, quelli non spettacolari, con la consapevolezza che tali fenomeno oggi più che mai, sopravvivono solo all’interno di un più vasto insieme: che è connotato spettacolarmente.
Come ogni scelta pragmatica siamo in un discorso individualista; Debord ovviamente non concepisce nemmeno questa possibilità, la compresenza di due tempi in equilibrio a partire dalla volontà del soggetto, ma vuole un ripristino di un tempo in toto umano: queste le sue parole: La base naturale del tempo, il dato sensibile dello scorrere del tempo, diviene umano e sociale esistendo per l’uomo. La condizione limitata dalla pratica umana, il lavoro a differenti stadi, è ciò che fino a oggi ha umanizzato, e insieme disumanizzato, il tempo, come tempo ciclico e tempo irreversibile separato della produzione economica. Il progetto rivoluzionario di una società senza classi, di una vita storica generalizzata, è il progetto di un deperimento della misura sociale del tempo, a favore di un modello ludico di tempo irreversibile degli individui e dei gruppi, modello nel quale sono simultaneamente presenti dei tempi indipendenti federati. E’ il programma di una realizzazione totale, nell’elemento del tempo, del comunismo che sopprime tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui. Ma tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui, mi viene da chiedere, è sopprimibile? O non è invece proprio esso a permettere agli individui di esistere in uno stadio più evoluto di quello animale?
Sia come sia la possibile uscita da questa situazione, di gruppo o individuale, la situazione odierna ha decretato la vittoria su larga scala del capitalismo. In essenza il capitalismo è anche un processo di banalizzazione. Proprio per l’ampiezza della scala su cui agisce, il capitalismo ha bisogno che ogni oggetto sia reso banale, facilmente accessibile. Oltre ad agire sul tempo, che come abbiamo visto desacralizzandosi è divenuto una somma di identici, il capitalismo banalizza anche lo spazio: prodotto di questa necessità è il turismo. Il turismo può essere visto come la possibilità di andare a vedere da vicino ciò che è diventato banale, un processo attraverso il quale anche gli spazi dell’uomo come il tempo diventano intercambiabili, equivalenti. L’uomo collocato in questi spazi resta isolato rispetto ai suoi vicini, vive una pseudo collettività. La mente individuale, anche in questa situazione, bombardata da immagini spettacolari che ribadiscono il suo isolamento e che, proprio per questo, acquistano forza.
Chiudiamo l’analisi del libro di Debord con alcune considerazioni sul ruolo della cultura. Per il nostro autore la cultura sta andando incontro ad un processo di dissolvimento; ciò si deve alla sua natura intrinseca, ovvero al suo essere nel contempo un processo di indipendenza dall’imperialismo economico – la cultura denuncia i sedimenti del vecchio ordine e i punti in cui il nuovo vuole farne altri – ed un processo imperialistico di per sé. L’aumento del secondo versante dialettico – la cultura è sempre più onnivora, divora tutto ciò che non le somiglia per renderlo simile a sé – rende possibile la scomparsa della cultura all’interno del banale commerciabile. Il suo volere essere significativa ad ogni costo si scontra con l’incapacità del mondo di raccogliere il proprio senso. La cultura è il senso di un mondo troppo poco sensato.
La fine della cultura si può intravedere nei due aspetti dominanti di essa nella società dello spettacolo; da un lato abbiamo la critica, che esiste solo in funzione della mancanza di cultura da criticare, appunto; dall’altro abbiamo una cultura di conservazione dei reperti del passato in quanto oggetti morti, che non devono entrare nella vita quotidiana: i musei. Ma un’arte che esprime senso attraverso opere individuali non calate in un universo sincretico di cui dovrebbero esprimere la significatività rischia, a lungo andare, di perdere qualunque significato. L’arte che afferma, attraverso gli artisti, la sua indipendenza, è un’arte che inizia a dissolversi.
L’arte, ribadiamolo, si dissolve perché non ha più un senso da comunicare. La forma ideologica che domina la nostra società non è infatti comunicabile, esiste indipendentemente dal suo dirsi. Questa ideologia non ha bisogno né di parlare né di convincere. Il suo semplice esistere è la prova della sua giustezza. Questo equivale a dire che è finito il tempo delle ideologie. Ricordiamo che queste considerazioni sono del ’67, ben prima del trionfo della società liquida, ben prima del crollo del muro. Un libro ricco di spunti, da accogliere sì con moderazione ma tendendo presente che spesso l’estremista riesce a cogliere più verità del moderato.
Purché l’estremista non voglia fare spettacolo.

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