Recensione: Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine, Mimesis,

Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine

Mimesis, pp. 158, euro 14

A cura di Massimiliano Sandri

La filosofia contemporanea segna una cesura evidente rispetto a quella del passato con l’opera di Kant. Con Kant si entra in quello che Meillassoux definisce correlazionismo, ovvero l’idea che ciò che conosciamo non è né l’essere né noi stessi, ma la relazione tra i due; e, ciò che è ancor più decisivo, il punto centrale della relazione siamo noi (questa è stata una deriva post kantiana, sia chiaro): “La nozione centrale della filosofia moderna dopo Kant (è) divenuta quella di correlazione. Per ‘correlazione’ intendiamo l’idea secondo cui noi abbiamo accesso solo alla correlazione del pensiero e dell’essere, e in nessun caso ad uno dei due termini preso isolatamente” (p. 17).

Questo è una vera rivoluzione, e infatti il lavoro di Kant è da più commentatori indicato come una rivoluzione copernicana nel campo della filosofia. Secondo l’autore di questo libro invece, con Kant si fa un passo indietro, dato che la sua visione non fa che riportare l’uomo al centro dell’universo dal quale prima Galileo e poi Copernico avevano cercato di levarlo. Ovviamente gli intenti dei due scienziati non erano primariamente filosofici, bensì scientifici. Ciò non toglie che a partire da Kant si assiste ad una progressiva distruzione del substrato metafisico della società, di cui la filosofia rispecchia/anticipa le tendenze. Di fatto questa distruzione ha radici ben più lontane, dato che possiamo identificare il correlazionismo con il nominalismo, che nasce appena dopo l’anno mille. Il nominalismo sorge come tentativo di salvaguardare un campo ben delimitato alla religione contro la visione scientifica della realtà. Dato che il nominalismo è una visione molto più diretta della realtà, ovvero molto più in grado di assecondare le debolezze individuali verso di essa, alla fine ha sconfitto il più coriaceo realismo, la corrente che voleva la realtà diretta emanazione di un’entità superiore. Secondo il nominalismo è l’uomo ad assegnare il nome alle cose che prendono realtà da questa assegnazione; attraverso un percorso di secoli, si è giunti alla situazione attuale in cui si è legittimati a credere in ciò che si preferisce anche se dietro questa credenza non vi è alcuna realtà; come avevamo già detto parlando di un altro ponderoso libro di filosofia, è la vittoria dell’idealismo berkleyano: esse est percipi.

Meillassoux non vuole in alcun modo difendere l’esistenza di un essere superiore, tutt’altro. Suo scopo è individuare un principio ‘assoluto’ nell’esperienza che, in quanto assoluto, permetta di rifondare una visione dell’assoluto; ma un assoluto che non vada alla ricerca di principi inverificabili, fideistici, bensì scientifici, matematici: “Il decentramento galileiano-copernicano della scienza si può esprimere così: ciò che è matematizzabile non può venir ridotto a un correlato del pensiero. (…) Ed ecco che ci imbattiamo in un paradosso davvero sorprendente: i filosofi chiamano rivoluzione copernicana quella operata da Kant nell’ambito del pensiero, che ha un senso esattamente contrario rispetto a quello che abbiamo definito” (p. 145).

“Dopo la rivoluzione kantiana, un filosofo ‘serio’ ha il dovere di pensare che la condizione di pensabilità del decentramento copernicano della scienza moderna è in verità il ricentramento tolemaico del pensiero. (…) Dal 1781, l’anno della prima edizione della Critica della Ragione pura, pensare filosoficamente la scienza significa sostenere che il telemaismo filosofico è il senso profondo del copernicanesimo scientifico” (p. 146). La filosofia ha strette connessioni con la realtà sociale, molto più strette di quanto sia normalmente creduto. L’approccio kantiano è gradualmente scivolato nel comportamento normale delle persone sino ad estremizzarsi. Quello di Kant viene infatti definito correlazionismo debole, mentre quello contro cui si oppone più veementemente l’autore di questo libro è il correlazionismo forte, a suo dire personificato dagli scritti di Wittgenstein e Heidegger.

Al di là degli intenti dei due filosofi succitati, diversissimi a mio parere benché similari nel consequenziale incitamento dell’irrazionalità, ciò che l’autore del libro intende porre in evidenza è che “la fine delle ideologie ha preso la forme di una vittoria piena della religiosità. (…): Ognuno contrappone la sua fede a quella altrui, dato che non vi è più nulla di dimostrabile in merito a ciò che determina le nostre scelte fondamentali. In altri termini, de-assolutizzare il pensiero sfocia nella produzione di un argomento fideistico, ma di un fideismo essenziale e non semplicemente storico: costruito dalla ragione, esso diviene l’appoggio non di una determinata religione (come avvenne nel XVI secolo per il fideismo cattolico o sedicente tale) ma del religioso in generale. (…). Il fideismo storico non è la maschera che avrebbe indossato l’irreligiosità ai suoi inizi, ma è piuttosto la religiosità sotto le mentite spoglie di una determinata apologetica (in favore di una religione o di un culto piuttosto che di un altro), prima di rivelarsi come l’argomento generale della superiorità della pietà sul pensiero. La fine contemporanea della metafisica è una fine che, essendo scettica, non poteva essere che una fine religiosa della metafisica” (pp. 62-63).

La trasformazione della metafisica, della credenza in un assoluto, in fede ha conseguenze deleterie sull’approccio dell’uomo al mondo. Supporre che sia essa – la fede – a dover porre rimedio ai guasti apportati dalla mancanza di ragione dell’uomo lascia inermi gli uomini di buona volontà, coloro ai quali ancora interessa l’uso della ragione. Restando su un piano molto alto, molto astratto e di difficile traducibilità in linguaggio non specialistico, Meillassoux propone una deduzione speculativa della necessità della contingenza. Se si trova infatti anche solo un elemento della realtà di natura necessaria, è possibile rifondare una Teoria del reale, un sistema cioè che lo spieghi avendo dei fondamenti e non riducendosi, come fa il correlazionismo, alla rinuncia alla spiegabilità generale del reale stesso.

Cerchiamo di entrare per gradi nelle difficili argomentazioni di Meillassoux: “La prima ratificazione filosofica dell’avvenimento galileiano è cartesiana. Descartes ratifica sia che la natura è senza pensiero (e quindi anche senza vita, dato che le due cose per lui si equivalgono) sia che il pensiero è in grado di pensare una tale natura desoggettivata” (p. 153) Qui il pensiero è ancora funzione di una realtà da lui indipendente. Quasi in contemporanea a Cartesio, Galileo sostiene che il mondo è rappresentabile interamente secondo le leggi della matematica e le linee della geometria: “Il perdurare dell’evento-Galileo, dimostrando che tutte le forme antiche di sapere metafisico erano fallaci, dimostra anche la vanità di ogni fondazione metafisica della fisica. L’evento galileiano non risiede solo, infatti, nella desoggettivizzazione matematica del mondo, ma anche nella distruzione di ogni sapere a priori dell’esser-così-del-mondo” (p. 154). Se viene distrutta a priori la possibilità di dire che il mondo è fatto in un certo modo, si è aperta la porta al correlazionismo. Nulla è più tale e quale, tutto diviene soggettivo. A questo punto arriva il problema di Hume, da cui Kant ricaverà lo spunto per il famoso risveglio dal sonno dogmatico. Hume pone dei dubbi sulla validità assoluta della legge causale; a suo dire non vi è un motivo razionale per supporre che a cause uguali continuino a seguire effetti uguali: “L’evento-Hume è così la seconda ratificazione filosofica dell’evento galileo, sotto forma di dimostrazione di invalidità di ogni forma metafisica di razionalità, ovvero dell’invalidità dell’assolutezza del principio di ragione sufficiente. (…). L’esser-così-del-mondo può essere scoperto solo attraverso l’esperienza, e non può essere dimostrato come assolutamente necessario” (p. 154). Si arriva così a Kant, che cerca un po’ di salvare capra e cavoli accettando l’importanza del dato empirico ma subordinandolo alle categorie logiche del soggetto: “L’evento-Kant espone nella sua forma finale e stabilizzata questo crollo della metafisica, facendo della conoscenza correlazionale la sola forma di conoscenza filosoficamente legittima. (…) In altre parole, per salvare la possibilità degli enunciati a priori, è necessario cessare di associare l’a priori alle verità assolute, per farne la determinazione delle condizioni universali della rappresentazione” (p. 154).
In Kant vi è il primo esempio della rinuncia all’approccio cartesiano-galileiano al problema della conoscenza. La scissione effettuata da Cartesio in due sfere distinte di realtà, conoscibili ciascuna secondo modalità specifiche, potrebbe essere stata fatta con lo scopo di liberare la meno importante (res estensa) dalla più importante (res cogitans) secondo l’opinione corrente dell’epoca. Ricordiamo che il rinascimento coincide con la progressiva apertura della mente umana alle possibilità della conoscenza libera dai vincoli della religione. La strada tracciata da Kant – che può essere vista come un tentativo di riunire le due sfere – è stata poi seguita dalla maggioranza indiscriminata dei filosofi, che hanno tutti abbracciato l’opzione idealista contro la più modesta opzione empirista. L’empirismo in quanto tale però non può difendersi dal correlazionismo, che dalla sua vanta l’acquisizione più significativa degli ultimi due secoli di pensiero filosofico: “Al correlazionismo si è riconosciuta la scoperta di una verità essenziale – noi abbiamo accesso solo al per noi e non all’in sé – ma invece di concluderne che l’in sé è inconoscibile, si è concluso che la correlazione è il solo autentico in sé” (p. 71). A conferma di quanto dicevo sopra, va sottolineato che in Kant l’in sé è, appunto, inconoscibile. Kant cerca di marciare in bilico sulla linea stretta che separa empirismo e razionalismo. La sua opera verrà utilizzata dai suoi epigoni per portare in auge la versione malata del razionalismo, l’idealismo delle rappresentazioni.
L’in sé è evidentemente assoluto (ab-solutum, sciolto da vincoli) e rivendicare, come hanno fatto le varie correnti filosofiche contemporanee, la legittimità di un in sé ridotto alle categorie individuali, e quindi un in sé che non è generale bensì particolare – e quindi inconsistente dal punto di vista filosofico – produce a livello sociale una ricaduta in termini di disgregazione più che evidente. Ritrovare un assoluto che non sia metafisico, fideistico, ma solo razionale, perché la sua non assolutezza contrasterebbe con le leggi della logica, della scienza, è lo scopo del libro di cui stiamo parlando. Uno scopo, nel caso foste giunti a pensare che la filosofia è un mucchio di chiacchiere senza senso, che è sia filosofico sia civile perché solo con l’assunzione volontaria di una forma mentis atta a contrastare il predominio del correlazionismo, che nella sua forma più dura coincide con il nichilismo che rappresenta la fine della civiltà, è possibile trovare un punto fermo al quale ancorare la convivenza civile.
Questo assoluto, come accennato all’inizio, è la necessità della contingenza. Questa necessità, che viene spiegata diffusamente ma in maniera molto tecnica e difficilmente riassumibile nell’ultimo capitolo, è chiaramente antimetafisica. In essa si fa riferimento all’intotalizzabilità del reale, chiamando in causa la teoria dei transfiniti di Cantor. In base a questa teoria matematica (“ogni enunciato matematico non è necessariamente vero ma assolutamente possibile”, p. 156) esistono diversi infiniti, con diversi gradi di potenza, ognuno più grande dell’altro. Questa affermazione apparentemente assurda – che due infiniti siano di dimensioni differenti – si dimostra con una semplice applicazione della legge di corrispondenza biunivoca agli elementi degli insiemi infiniti. Se il reale non è quindi totalizzabile, ne consegue che le categorie del soggetto sono una conseguenza della stimolazione dell’oggetto; nella relazione dialettica l’oggetto viene prima del soggetto. Su questo punto trova nuova luce il problema dell’arcifossile con cui si apre il libro, una versione scientificamente aggiornata dell’albero di Berkley. Il reale può quindi apparire in maniera contingente alla mente del soggetto. Questa contingenza, dimostrata matematicamente possibile, è un assoluto del reale applicato al pensiero.
Una volta stimolato dalla realtà, il pensiero diventa centrale, e qui sta tutta l’attualità del pensiero più puro di Kant. Ma l’uomo ha la tendenza naturale a dimenticare le proprie origini. Il mascheramento delle proprie origini materiali fa parte di un processo che ha impiegato millenni per arrivare al punto in cui siamo. Con Kant, secondo me, si compie il tentativo di non dimenticare le origini pur riconoscendo la preponderanza esplicativa degli sviluppi successivi. Purtroppo questo approccio cauto e saggio non è stato raccolto e si è quindi scivolati in un tolemaismo di ritorno, come giustamente osserva il nostro filosofo. Questa constatazione fa il paio con la descrizione che dà Turcke della storia occidentale nel suo La società eccitata, di cui ho già parlato. La società nel suo complesso di cui parla Turcke, e la più ristretta società filosofica di cui parla Meillassoux, lasciano l’impressione di volere limitare le direzioni di sviluppo del soggetto e del pensiero per scopi non sempre dichiarabili.
Un reale che non sia totalizzabile, e quindi descrivibile e prevedibile a priori, è sicuramente più libertario e pieno di possibilità che non l’asfittico mondo correlazionale ove solo le categorie innate (kantianamente) o acquisite dall’esperienza (esistenzialismo) possono dotare di senso il mondo. Il punto è che il mondo è di per sé pieno di senso, sta poi a noi accettarlo, o rifiutarlo, attraverso la necessità della contingenza.

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