Recensione: Joyce Carol Oates, La donna del fango, Mondadori

Joyce Carol Oates, La donna del fango
Mondadori, pp. 427, euro 20
Traduzione Giuseppe Costigliola
 
Meredith Ruth (M.R.)  Neukirchen, ecco il nuovo nome che Jedina, la bambina abbandonata nel fango dalla madre, assume dopo essere stata adottata da Agatha e Konrad, una coppia di quaccheri di una piccola cittadina a nord di New York. Ora M.R. è diventata adulta, si è affermata ed è arrivata a dirigere con il ruolo di rettore la più importante università privata d’America.
Da questa università la Oates – che ricordiamo da anni in lizza per un meritatissimo nobel alla letteratura – ci descrive il presente ed il passato di M.R., in bilico tra paure irrisolte e l’incapacità di afferrare realmente quello che le succede attorno. Benché affermata filosofa, M.R. si lascia sopraffare dalle proprie paure, oltre che dalle proprie illusioni, subendo la pressione schiacciante del passato; rischia di finire come Nietzsche, per avere troppo guardato il mondo.
Tutto quello che le capita è descritto ‘in soggettiva’, ma una soggettiva che non è una visione distorta ed assolutamente individuale del mondo; M.R. non è matta, cerca solo di trovare un senso in quanto donna al proprio agire. Ma per farlo accelera sempre più il suo ritmo, fino a rischiare il tracollo. Per evitarlo dovrà rivisitare le tappe del proprio passato; significativo in questo senso che il romanzo inizi e termini con due situazioni strutturalmente identiche. Alla prima risponderà iniziando un percorso individuale nella quasi follia, alla seconda con l’azione diretta, segno che l’incombente pazzia è stata sconfitta. Da una bambina trovata nel fango a una donna che si libera da quel fango.

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