Recensione: Shane Stevens, Io ti troverò, Fazi

Shane Stevens, Io ti troverò
Titolo originale In Case of Insanity
Fazi, pp. 795, euro 19.50
Traduzione Giuliano Bottali – Simonetta Levantini
Un’avvertenza: se pensate che il protagonista di Non è un paese per vecchi è un personaggio violento; se pensate che nei libri di Stephen King ci sono troppi morti, spesso ingiustificati; se credete che l’America rappresentata nei film d’azione sia un pessimo modello per le nuove generazioni; ecco, se pensate tutto questo, non leggete il romanzo di quello che King, Ellroy e Connolly giudicano il loro maestro. Infatti, in Io ti troverò, troviamo il primo serial killer della letteratura americana. E per essere il primo, ci va giù pesante.
A dieci anni Thomas Bishop uccide la madre, mettendola nel forno e bruciandola completamente; la polizia lo trova davanti alle ceneri e lo manda in un istituto psichiatrico. Qui Bishop cresce, uscendo dal suo iniziale quasi autismo per pervenire ai venticinque anni ad una forma di follia controllata. Freddo, calcolatore, anaffettivo, Bishop progetta la fuga dall’istituto insieme ad un altro recluso, Vincent Mungo. Appena fuori dalle mura della prigione, Bishop ammazza Mungo, gli distrugge la testa con la vanga, gli mette addosso i suoi documenti e fugge per la California. Assumendo l’identità dell’amico ucciso – la polizia cerca Mungo, non Bishop – Bishop percorre gli Stati uniti – arriva fino a New York, dove la storia finisce – uccidendo un numero imprecisato di donne, con lo scopo di proseguire la missione del suo immaginario genitore, Caryl Chessman.
A questo punto occorre fare un inciso. Il caso di Caryl Chessman, il personaggio reale del romanzo, è il punto di partenza della storia. Quest’uomo venne condannato a morte nel 1948 e ucciso con un’iniezione nel 1960. Dodici anni in attesa nel braccio della morte, otto rinvii ottenuti, un vasto movimento di opinione per la revisione del suo processo, fecero di quest’uomo un simbolo nella storia dei diritti civili in America.
     Shane Stevens – uno pseudonimo, ché l’autore difese per tutta la vita il suo diritto alla privacy, un raro esempio di sobrietà di questi tempi – utilizza la vicenda di Caryl per costruire un complesso castello nel quale colloca tutti gli elementi sociali cui oggi il genere noir ci ha abituato. La scia di sangue che Bishop si lascia dietro diventa la scusa per una campagna sulla difesa della pena di morte che il solito politico cavalca per arrivare in alto; questo politico è, come ovvio, coinvolto in affari immobiliari poco chiari; in questi affari entrano anche i proprietari del giornale che sta conducendo una campagna mediatica sull’individuazione dell’omicida. E poi c’è la mafia, naturalmente, perché il padre vero di Bishop è morto durante una rapina il cui bottino, mai recuperato, ha permesso l’ascesa di alcuni personaggi minori della storia.
Tante cose dell’America che oggi ci sembrano così eccessive, non nascono dal niente, hanno una loro storia, che se non le giustifica – ciò che esiste non ha bisogno di essere giustificato – le rende comprensibili, quasi fossero un effetto della follia.

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