Recensione: Robert A. Heinlein, Straniero in terra straniera, Fanucci

Robert A. Heinlein, Straniero in terra straniera
Fanucci, pp. 724, euro 14.90
Traduzione Marco Pinna
 
Pochi ormai ricordano la fantascienza classica degli anni ’50-’70. Ce n’era tanta, molto spesso brutta e stereotipata. Come spesso capita però con i fenomeni di una certa dimensione, era possibile trovare in mezzo a tante stupidaggini alcune perle. Lo scopo della fantascienza, di quella di qualità, non era infatti mettere in scena battaglie tra extraterrestri cattivi e umani buoni ma cercare di capire quali possibilità aprissero al genere umano le frontiere dell’ignoto. Oggi tutto questo è scomparso. Perché l’ignoto è stato tolto dall’orizzonte del possibile. Ai  postmoderni resta Harry Potter e la magia. Addio realtà.
La fantascienza si poneva degli scopi, cercava di dire qualcosa, di afferrare qualcosa che avesse un significato. La riduzione di tutto a gioco, a cosa non impegnativa, ha distrutto la stessa possibilità dell’ignoto in quanto oggetto da conoscere. L’ignoto che oggi il pubblico può affrontare è, in linea di massima, quello che ci spetterebbe dalla televisione; quindi un non-ignoto. Chi invece aveva davanti a sé un futuro sconosciuto, poteva benissimo aspettarsi delle sorprese. L’ignoto poteva diventare reale. Da qui la domanda del libro: cosa succederebbe se un uomo venisse allevato da una società non umana?
Per scoprirlo, basta fare scomparire tutti i membri dell’equipaggio della prima spedizione umana su Marte e permettere alla spedizione successiva di trovare sul pianeta rosso l’unico superstite, precisamente il figlio di una coppia della prima spedizione: Valentine Michael Smith.
Riportato a casa, o meglio, sulla terra, che non è la sua casa, Michael entra nelle prime due parti del romanzo nel complesso gioco di forze che si crea tra il potere dell’informazione ed il potere politico, entrambi interessati, per motivi opposti, alle sue sorti. Uno scrittore famoso e ricchissimo, Jubal Harshaw, si metterà dalla parte dell’informazione e aiuterà il giovane ed assolutamente inesperto (questa parola applicata ad un giovane umano allevato su Marte perde il significato abituale) a capire il mondo dove è andato a finire. Nella terza parte Michael, insieme alla fida Jill, esplora il mondo e nella quarta ed ultima dà vita ad una nuova religione, con lo scopo esplicito di salvare l’umanità. Finirà come il precedente che c’aveva già provato.
Da questo breve sunto si può intuire la ricchezza del romanzo. Va detto che è scritto con uno stile estremamente popolare, come doveva essere la scrittura di fantascienza. Ma al di là della scrittura, è interessante notare come in questo libro confluiscano influenze di romanzi precedenti – cronache marziane di Bradbury tanto per dirne una senza dimenticare però il Mondo Nuovo di Huxley – e trovino sedimento realtà sociali in atto in quel periodo. La nuova religione di Michael risente infatti per molti versi dalla neonata Scientology di Ron Hubbard, senza l’assolutismo del suo padre fondatore che, detto per inciso, era anche un discreto scrittore di fantascienza.
Questo libro è quindi il documento di un’epoca passata che, essendo riuscito a resistere allo scorrere del tempo, acquista anche un certo valore estetico. I romanzi della nostra epoca invece, così ansiosi di rendersi visibili, così ansiosi d’essere di facile consumo, così alieni all’intento di esprimere un significato permanente, riusciranno a resistere allo scorrere del tempo oppure verranno annichiliti dalla loro inessenza? E se l’inessenza fosse la nuova, e discutibile, cifra di un nascente piano estetico? Domande difficili queste, alle quali nessuno può fornire una risposta.
Neanche gli dei.
 

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