Recensioni: Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il mulino

Jean Baudrillard, La società dei consumi,
Il mulino, pp. 241, euro 15
Traduzione Gustavo Gozzi e Piero Stefani

La società contemporanea si caratterizza per la disponibilità immediata degli oggetti. A pensarci bene, questo fatto segnala un passaggio epocale. Si è passati da una società in cui le risorse utilizzabili erano di fatto poche ad una in cui le risorse chiedono di essere consumate, molte volte sprecate. L’uomo s’è adoperato per millenni in una strenua lotta contro la natura; ora, per la maggior parte di noi del primo mondo, questa lotta è per lo più teorica, è un’idea, un segno. Più che un semplice mutamento di costumi dietro questa trasformazione potrebbe esserci un vero e proprio mutamento antropologico: “Ciò (la difficoltà di vivere nell’abbondanza) dovrebbe far presentire che vi è nel consumo qualcosa di completamente differente, forse qualcosa di addirittura opposto – qualcosa a cui bisogna educare, addestrare, addomesticare gli uomini – di fatto un nuovo sistema di costrizioni morali e psicologiche che non ha nulla a che vedere col regno della libertà. (…). La rivoluzione dell’abbondanza non inaugura la società ideale, semplicemente introduce a un altro tipo di società” (p. 213).
La società che descrive Baudrillard è appunto una società basata sul consumo sia reale sia simbolico ché spesso l’immateriale ha sostituito per importanza il materiale. Così ci descrive la situazione: “Viviamo così al riparo dei segni e nella negazione del reale. (…). Il contenuto dei messaggi, i significati dei segni, sono largamente indifferenti. (…). Secondo lo stesso schema si può affermare che la dimensione del consumo, così come l’abbiamo qui definita, non è quella della conoscenza del mondo, ma neppure più quella dell’ignoranza totale: è quella del disconoscimento” (p. 15). Il segno, ovvero l’oggetto di consumo, rappresenta sì qualcosa, ma non come intende la filosofia ingenua in quanto valore d’uso, bensì in quanto valore di scambio, dato che i gruppi umani restano insieme soprattutto in virtù della circolazione al loro interno di significati sociali di differenza. In altre parole è attraverso il consumo dei segni che si mantiene in essere la differenziazione sociale in classi.
Secondo l’ideale illuminista lo sviluppo dovrebbe avere come punto d’arrivo l’armonia universale; sennonché “la società della crescita risulta nel suo insieme da un compromesso tra principi democratici egualitari, che possono sostenersi col mito dell’abbondanza e del benessere, e l’imperativo fondamentale del mantenimento di un ordine di privilegio e di dominazione. Non è il progresso tecnologico che la fonda: questa visione meccanica è quella stessa che alimenta la visione ingenua dell’abbondanza futura. E’ al contrario questa doppia determinazione contraddittoria che fonda la possibilità del progresso tecnologico” (p. 45).
La permanenza di classi sociali in un mondo in cui vi è abbondanza di tutto è quindi legata a filo doppio alla natura stessa del bisogno. Secondo una sociologia semplicistica la soddisfazione del bisogno è lo scopo dell’uomo; ma, dato che i bisogni naturali sono limitati si assisterebbe in breve all’equilibrio, al completo appiattimento della differenziazione sociale, ma così non è. Questa contraddizione delle teorie affermate rispetto a quanto si osserva in realtà è dovuta ai presupposti ideologici dei teorici contro cui Baudrillard prende posizione (soprattutto Galbraith, ma non solo): “Ogni discorso sui bisogni si basa su un’antropologia ingenua: quella della propensione naturale alla felicità. (…). Il concetto di felicità non deriva la sua forza ideologica da un’inclinazione naturale di ciascun individuo a realizzarla per lui stesso. Gli deriva, storicamente, dal fatto che il mito della felicità è quello che raccoglie e incarna nelle società moderne il mito dell’eguaglianza. (…). Per essere il tramite del mito egualitario, bisogna che la felicità sia misurabile. (…) Quella felicità che non ha bisogno di prove è dunque bandita dall’ideale del consumismo” (p. 39).
La ricerca di parametri oggettivi – che si fondano però su criteri non oggettivi, segnici – su cui stimare il proprio status fa parte di quel processo che Adorno chiamava di fungibilità generalizzata, ovvero la riduzione di tutto (corpo, tempo libero, vita emotiva, interessi culturali) a merce.
“Il culto del corpo non è più in contraddizione con quello dell’anima: semplicemente gli succede ereditando così la sua funzione ideologica. Come ha detto Norman Brown, conviene non lasciarsi fuorviare dall’autonomia assoluta tra il sacro e il profano e non interpretare come una secolarizzazione quella che è una metamorfosi del sacro” (p.158). Dato che non esiste più un’area intoccabile del sacro in cui realizzare la propria identità, l’identità si costruisce sul corpo che diviene così sacro. La sacralizzazione del privato fa parte di questa dinamica.
“Il tempo libero è coatto nella misura in cui dietro la sua apparente gratuità riproduce fedelmente tutte le costrizioni mentali e pratiche proprie del tempo produttivo e della quotidianità asservita. (…). Il tempo libero non è dunque tanto una funzione di godimento del tempo extralavorativo, di soddisfazione, di riposo funzionale. La sua definizione è quella del consumo del tempo improduttivo” (pp 184-187). Nulla può più essere improduttivo, dunque nulla può più essere umano nel senso di gratuito.
“La passione si può comprendere come relazione concreta con una persona totale, o con qualche oggetto assunto come persona. Essa implica un investimento totale e assume un valore simbolico intenso; mentre la curiosità ludica non è che interesse – anche violento – per il gioco degli elementi. (…). Questa attività ludica può assumere l’andamento di una passione. Ma essa non è una passione. Essa è consumo, qui manipolazione astratta di segni luminosi, di flipper, di cronassie elettriche; altrove manipolazione astratta di segni di prestigio nelle varianti di moda. Il consumo è investimento combinatorio: esclude dunque la passione” (pp. 126-127). La passione non è produttiva perché limitata; viviamo un’epoca di emozioni fredde.
“Entriamo qui nel mondo dello pseudo-avvenimento, della pseudo-storia, della pseudo-cultura, di cui ha parlato Boorstin nel suo libro L’image. Vale a dire di avvenimenti di storia, di cultura, di idee non prodotte a partire da un’esperienza mobile, contraddittoria, reale, ma prodotti come artefatti a partire da elementi del codice e della manipolazione tecnica del medium. E’ questo e null’altro ciò che definisce ogni significato, qualunque esso sia, come consumabile. E’ questa generalizzazione della sostituzione del codice al referenziale che definisce il consumo dei mass media. (…). E’ nella forma che è cambiato tutto: vi è dunque sostituzione, in luogo e al posto del reale, di un neoreale completamente prodotto a partire dalla combinazione degli elementi di codice” (pp. 141-142).
L’analisi di Baudrillard è impietosa. L’esperienza commercializzata è, fondamentalmente, non-esperienza, è la prova di tutto quello che ci manca; eppure la gente è stata ormai istruita a desiderare solo questo, solo questa falsa esperienza che la mantiene nel desiderio della vera esperienza. Un caso eclatante e sotto gli occhi di tutti è il successo dei pessimi libri commerciali in testa alle classifiche. Libri scritti male, banali e prevedibili che però la gente legge credendo di leggervi la realtà; e non si accorge invece dell’abile trucco combinatorio che pone elementi precostituiti là dove devono essere per provocare l’effetto voluto: commozione, rabbia, indignazione ed un vago senso di colpa, prontamente cancellato dal libro successivo.
Resta il fatto che questa analisi è del ’73, e tutto quello che è successo da allora ci permette di ampliare un po’ il discorso. Il fatto che esistano libri, all’interno della produzione dell’industria culturale, che hanno un valore d’uso, che insegnano, proprio come esistono vini che non sono fatti solo per assecondare i gusti, o vestiti tessuti e portati indipendentemente dalla moda dimostra che la trasformazione antropologica che la società dei consumi sta compiendo non è né totale né ottenuta senza opposizione e questo lascia uno spazio aperto alla speranza. Sembra allora che tutto quello che è successo non sia altro che una riproposizione della dialettica tra bene e male, tra progresso e regresso, tra speranza e disperazione.
Lo stesso Baudrillard ne era del resto consapevole: “Come la società del Medioevo si reggeva in equilibrio su Dio e sul diavolo, così la nostra si regge sul consumo e sulla sua denuncia” (p. 240).
Anche chi denuncia deve consumare qualcosa: che non sia la società.

3 thoughts on “Recensioni: Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il mulino

  1. cit: “è attraverso il consumo dei segni che si mantiene in essere la differenziazione sociale in classi.”
    “Il fatto che esistano libri, all’interno della produzione dell’industria culturale, che hanno un valore d’uso, che insegnano…lascia uno spazio aperto alla speranza.”
    Purtroppo questi libri vengono “segnati” con connotazione prettamente antagonista del modello di consumo, mattoni per intellettualoidi noiosi o anche solo propaganda di partito. Esistono libri di questo tipo, ma ridurre tutto al solito mazzo di fiori è il solito ridurre per sminuire…
    “ovvero la riduzione di tutto (corpo, tempo libero, vita emotiva, interessi culturali) a merce.”
    “La passione non è produttiva perchè limitata” “Nulla può più essere improduttivo, dunque nulla può più essere umano nel senso di gratuito.” Il mito dello scrittore che scrive per regalare felicità, però, mi pare possa reggere poco, la passione è limitata, la vita è un po’ più lunga. Ecco perchè lo scrittore, anche quello che idealizza da mattino a notte, sotto sotto insegue il mito del campare scrivendo.
    Ottime riflessioni monsieur Baudrillard. Peccato abbia il segno di essere mattone antagonista.
    Rimane questa speranza che esiste, resta sul pelo dell’acqua.
    Adoro i “non segni” positivi.

  2. Si potrebbe notare che i non segni positivi sono semplici conferme dell’esistente; se si ritiene che l’esistente non sia buono ne deriva per logica che non occorre cercare il positivo del reale, in quanto falso; o superficiale, per dirla con Baudrillard.
    La speranza deriva solo da ciò che afferma la possibilità d’un reale diverso dall’esistente. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma nell’unico che il potere economico vuole renderci praticabile. Muoversi solo in direzione del positivo non segnico, autoevidente, pecca un po’ di ingenuità.

  3. Un altro francese e ancora anni ’70: Michel Foucault. Nel suo “Volontà di sapere” afferma come nelle istituzioni di potere esiste una volontà di sapere tutto degli individui e dei meccanismi sociali che è dettata dall’esigenza di controllare il loro piacere ( Partendo dalla sessualità come strumento e supporto di questo occhio morbosamente controllore). Il potere parte dal basso, come rifornimento di notizie utili per il controllo. Nessuno è escluso in quanto, anche se dotato di individualità fortemente anti-segnica, risulta parte di micro relazioni sociali che lo vincolano al mondo economico, viene conosciuto e successivamente disconosciuto come differenza.
    Quello che ci è stato lasciato in eredità è, concordo, non il migliore, ma nemmeno il peggiore possibile.
    I non segni positivi non possono certo e ovviamente esser la soluzione, ma ritengo importanti per non tener spostato l’equilibrio esclusivamente sui segni economici (negativi per chi non accetta la visione di questo mondo). Visto che ogni novità, ogni prodotto “underground o contestatore” che attira individui viene immediatamente fagocitato nel business, diventa oggetto di commercio, si rimane nel dualismo segno – non segno, hai non hai, sei – non sei con i primi in nettissima maggioranza. La trasversalità, come cura, c’è, è mimetica, è reale e credo stia uscendo dal pelo dell’acqua. Benissimo.
    Credo, forse l’ho lasciato troppo sottinteso, che invece i segni positivi (commercio equo e solidale, volontariato, prestito bibliotecario e gli esempi citati nella recensione) che seguono regole economiche (non come fondamento, ma come mezzo) per diffondere aiuto e non differenze, siano altra forza e altra speranza concreta per migliorare questo mondo non ancora alla fine dei suoi giorni.
    Ma lasciateci anche le illusioni. Un po’ di oppio non ha mai ucciso nessuno. Solo un poco, però.

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