Pierre Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio, Bollati.

Pierre Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio
Bollati Boringhieri, pp. 115, euro 10
traduzione Barbara Chitussi

Ogni lavoro filosofico presuppone la storia della filosofia. Questo perché viene letto e meditato da una comunità che inevitabilmente si è formata sul corpus di conoscenze che è, appunto, la filosofia. I due libri di Wittgenstein quindi, per quanto il loro autore vedesse in essi, soprattutto nel primo, un’originalità assoluta, possono essere meglio capiti solo se collocati in un preciso contesto. Nelle parole di Hadot il contesto è il seguente: “donare una pace radicale e definitiva all’inquietudine metafisica”, (p. 78).
I problemi che la metafisica procura a chi se ne occupa – primariamente i filosofi, ma secondariamente tutta la società, che dai filosofi ha ricevuto le categorie di pensiero – si fondano, secondo Wittgenstein, su un uso scorretto del linguaggio. Nel primo dei suoi libri, il Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein vuole limitare le possibilità di analisi della filosofia alle proposizioni dotate di significato verificabile. Il mondo non è mai conoscibile in sé, ma solo attraverso il linguaggio che lo descrive. Questo linguaggio, per descrivere adeguatamente il mondo, dovrà rispecchiare la sua – del mondo – forma logica. Se, come nella metafisica classica, si usano proposizioni senza significato, la forma logica che ne deriva crea l’ansia metafisica, perché tali proposizioni non sono verificabili . Il problema di questo approccio, che ricorda per certi aspetti il positivismo logico, sta nel fatto che le stesse proposizioni che definiscono i limiti della filosofia risultano inverificabili, e quindi soggette alla stessa analisi negativa del libro. Tenete presente questo punto, sul quale torneremo alla fine.
Nel secondo libro, dopo varie vicissitudini esistenziali che mostrarono in pratica a Wittgenstein che i limiti del testo sono anche limiti della sua applicabilità, il nostro filosofo elaborò le Ricerche filosofiche. Qui si cambia prospettiva. “Nel Tractatus la logica costituiva un a priori che non poteva essere superato. Nell’ultima opera di Wittgenstein invece, sono i giochi linguistici a costituire i limiti invalicabili all’interno dei quali possono trovare posto le proposizioni sensate” (p. 80). Definire cosa siano i giochi linguistici non è cosa delle più semplici. Per approssimazione potremmo definirli gli ambiti di discorso. Nel linguaggio quotidiano ogni comunità crea delle verità attorno alle quali struttura il proprio rapporto con la realtà. Quindi per superare i problemi metafisici è necessario comprendere la relatività delle verità espresse, che convive con la loro assolutezza nel gioco linguistico particolare.
Questo mio scarno riassunto conferma quello che, con maggiore articolazione troverete espresso anche in un altro libro dedicato a Wittgenstein da Gabriele Lolli, ovvero che il percorso filosofico di quest’uomo ha diviso in due la storia della filosofia del novecento. La prima metà cerca le verità contenute nel Tractatus, la seconda si limita ad accennare alle possibilità delle Ricerche filosofiche. Detto più terra terra, nel primo libro Wittgenstein conservava l’illusione ottocentesca, illuminista, di poter raggiungere la Verità, mentre nel secondo assumono pari rilevanza le diverse verità.
L’analisi che Hadot propone dei due libri mi è parsa però più ricca, più profonda, perché non si limita ad esaminare gli influssi, filosofici, dei due lavori, ma cerca di evidenziarne le conseguenze anch’esse filosofiche; e, dato che parliamo di conseguenze, è chiaro che la filosofica è qui intesa come una prassi, non come un semplice discorso (metafisico?). Hadot, esperto studioso di filosofia antica, pone in evidenza come lo scopo dei fondatori della filosofia non fosse tanto spiegare la realtà ultima, che è l’inganno della metafisica di stampo tardo ellenista e cristiano, quanto fornire i fondamenti di una prassi il cui scopo era avvicinare l’individuo alla felicità possibile. Wittgenstein persegue questo scopo dando il limite verso cui muoversi. Il limite non è raggiungibile (aporia cosmologica, Kant) e non esiste un al di là del limite (aporia teologica, Kant). La forme logica con cui esprimiamo il mondo è quindi sempre approssimata e non è possibile l’esistenza di alcuna realtà che abbia la totalità di questo limite irraggiungibile.
Questa frase non è però verificabile, risulta essa stessa metafisica, secondo quanto espresso nel Tractatus. La felicità riposa quindi su di un’appercezione immediata della realtà.
Il limite del linguaggio è il fondamento della felicità.

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