Recensione: Carlo Rovelli, Helgoland

Carlo Rovelli
HELGOLAND
Edizioni Adelphi, pp. 198, € 15

È sotto gli occhi di tutti che il modo di guardare alla realtà dei contemporanei è ben diverso, mettiamo, da quello dei cittadini francesi di fine ‘700. Il motivo di questo cambio di prospettiva è dovuto allo sviluppo della scienza, che ha fornito all’umanità delle nuove lenti con cui guardare: la scienza è «un’esplorazione di nuovi modi per pensare il mondo» (p. 13). Carlo Rovelli ci guida con leggerezza mai banale attraverso l’avventura intellettuale che ha rivoluzionato il nostro modo di guardare alla fisica atomica: la nascita della teoria dei quanti. Immagino che tutti abbiano sentito nominare sia la teoria sia i principali attori responsabili della sua nascita. La prima parte del libro di Rovelli è destinata a una veloce ma puntigliosa ricostruzione di quanto avvenne.
Siamo nel 1925, Werner Heisenberg è sull’isola di Helgoland per curare le proprie allergie; mentre si cura, pensa alle questioni in sospeso; in particolare sta cercando di risolvere il mistero della teoria di Bohr sulla conformazione dell’atomo. In essa l’atomo è descritto come se avesse al suo interno elettroni collocati su pozioni fisse che possono spostarsi ad altre posizioni altrettanto fisse con energie definite e non modificabili: questa era evidentemente una prima descrizione quantistica ma non c’era la teoria che permettesse di capirla. La teoria funzionava ma non permetteva di calcolare l’energia liberata dagli atomi. Heinsenberg giunse in quell’isola a concepire l’idea che occorreva cambiare prospettiva. Nella teoria che stava iniziando a prendere forma nella sua mente, e che comunicò al suo professore, Niels Born, gli elettroni sono descritti da matrici. In una matrice un elettrone smette di essere un punto ma assume un’energia che è il frutto dell’incontro di posizioni sulla matrice. Questa innovazione, che suscitò estremo interesse nel mondo scientifico dell’epoca, aveva difficoltà tecniche perché introduceva un nuovo tipo di matematica, che gli scienziati erano restii a utilizzare. In loro soccorso, un paio d’anni dopo, arriva una scoperta di Erwin Schrodinger che, sfruttando un’intuizione di Louis De Broglie, ipotizza che il moto del corpuscolo elettrone sia ugualmente descrivibile da un’onda di probabilità, ottenendo in questo modo gli stessi risultati di una tabella di matrici. Anche se questo approccio inizialmente raccoglie l’approvazione di molti, Heisenberg noterà presto come utilizzando le onde di probabilità si abbiano diversi inconvenienti: «Heisenberg si rende subito conto che la chiarezza concettuale delle onde di Schrodinger è fumo negli occhi. Un onda prima o poi si diffonde nello spazio, un elettrone no: quando arriva da qualche parte, arriva sempre e solo tutto intero in un singolo punto. Se un elettrone viene espulso da un nucleo atomico, l’equazione di Schrodinger prevede che l’onda psi si sparga uniformemente ovunque nello spazio. Ma quando l’elettrone è rilevato, per esempio da un contatore geiger o da uno schermo televisivo, arriva in un punto solo, non è diffuso nello spazio» (p. 38). In breve la comunità scientifica dà ragione a Heisenberg che, pochi anni dopo, riceverà il Nobel per le sue ricerche.
Questa è la parte storica, che racconta e illustra, a chi ne dubitasse, la rilevanza che la scienza ha avuto nell’arrivare dove siamo arrivati. Dopo questo breve ma esauriente preambolo storico, Rovelli entra più nello specifico della teoria; cerchiamo quindi di seguirlo, almeno nei limiti delle nostre conoscenze e capacità. I tre punti fermi della teoria sono la probabilità, l’osservabilità e la granularità. La teoria dei quanti è una teoria probabilistica, ci dice cioè quante probabilità ci sono che un dato fenomeno si manifesti, allontanandosi in questo dalla fisica classica, che si basa sul principio del terzo escluso. È anche una teoria che si basa esclusivamente sui dati osservabili, e anche in questo si allontana molto dalla fisica esistente ai tempi, che faceva largo uso di variabili arbitrarie. Proprio in quest’ottica si inserisce una delle teorie alternative sviluppate per spiegare i risultati della quantistica senza andare a inficiare i principi metafisici che sorreggevano il tutto: è la teoria delle variabili nascoste, nella quale si sostiene la natura corpuscolare dell’elettrone insieme alla natura probabilistica del resto, generando però così incoerenze dal punto di vista della relatività. Altre due teorie che Rovelli illustra, pur trovandole erronee, sono quelle del collasso e dei molti modi (cfr. pp. 67-74).
Ma il vero punto dolente della teoria, che l’ha resa sin dal suo apparire così difficile da capire (Feynmann sosteneva che nessuno capisce la teoria dei quanti), non è nelle sue caratteristiche alternative rispetto alla fisica classica quanto nel fenomeno cosiddetto di ‘sovrapposizione quantistica’: in base a questo principio un fenomeno quantistico si comporta, ovvero viene registrato, in modi diversi a seconda che ci sia un osservatore o no. Sembra quindi che l’occhio di chi guarda influisca sul fenomeno anche in assenza dello sguardo, una specie di azione magica quindi. Un’azione magica che toglie realtà all’oggetto che dovrebbe sostanziare il fenomeno. Molto difficile da accettare per i fisici classici, che basano le proprie categorie di pensiero sui risultati della fisica del ‘700. Gli aspetti salienti della sovrapposizione quantistica sono chiariti nella seconda parte a cui rimando chi volesse approfondire. Prima però di passare all’ultima parte, anch’essa storica, in cui Rovelli parla di un altro grande e misconosciuto esponente della rivoluzione del pensiero in oggetto, provo ad affrontare un altro punto teorico che potrebbe chiarire meglio la natura della teoria dei quanti: l’entanglement.
L’entanglement è il fenomeno fisico per cui due particelle, fisicamente separate, manifestano un comportamento osservabile che si giustifica solo se si concede che tra esse vi sia una qualche comunicazione. Rovelli prova a spiegare questo fatto in termini quantistici. Esso non è il manifestarsi misterioso di una proprietà condivisa tra due oggetti, perché questi due oggetti hanno tale proprietà solo in relazione a un terzo oggetto, che rileva la proprietà del primo e determina quella del secondo: «una correlazione fra due oggetti è una proprietà dei due oggetti: come tutte le proprietà esiste solo in relazione a un ulteriore, terzo, oggetto» (p. 106). Poco prima troviamo scritto: “(la teoria dei quanti) descrive come qualunque oggetto fisico si manifesti a qualunque altro oggetto fisico. Come qualunque oggetto fisico agisca su qualunque altro oggetto fisico” (p. 84). Le due particelle dell’entanglement esistono solo in quanto un terzo osservatore le fa esistere. La realtà ha definitivamente cessato di essere composta da unità che abitano l’universo, diventando una serie di incontri più o meno casuali; di cosa però, non si sa. Non si sa perché ogni oggetto manifesta la sua ‘essenza’ solo quando incontra qualcosa. Detto in termini più chiari, non c’è più un’essenza della realtà; ma, si badi bene, questo non significa che non c’è più la realtà. In termine culturali parlare di essenza ha sempre avuto una connotazione ultramondana, elitaria quasi. Privata di una sua essenza, la realtà continua ad avere un’esistenza semplice molto concreta, direttamente sperimentabile da chiunque voglia armarsi della pazienza e dell’impegno necessari a ottenerla.
Einstein fu di fatto uno dei precursori della teoria dei quanti; sebbene nella maturità e oltre lo scienziato austriaco abbia manifestato diversi dubbi su di essa (la famosa frase «Dio non gioca a dadi» vuole semplicemente significare l’incapacità di Einstein a introdurre l’indeterminatezza nella natura che deriva direttamente da questa mancanza di sostanzialità), il concetto di relatività dei fenomeni tra di loro a livello macromolecolare è ben rispecchiata dai presupposti della teoria dei quanti: «Le proprietà di un oggetto che sono reali rispetto a un secondo oggetto non lo sono necessariamente rispetto a un terzo» (p. 89). Questa frase non è altro che riaffermare i principi della relatività a un livello un po’ più generale: «La scoperta della teoria dei quanti è solo un po’ più radicale: è la scoperta che tutte le proprietà (variabili) di tutti gli oggetti sono relazionali come lo è la velocità» (pp. 90-91).

Riassumendo, alla base della teoria dei quanti abbiamo due postulati:
1. La quantità d’informazione rilevante che possiamo avere su un oggetto fisico è finita.
2. Interagendo con un oggetto fisico possiamo acquisire sempre nuova informazione rilevante (p. 112).

Cerchiamo di capire il nesso di queste due affermazioni apparentemente contraddittorie.
Il punto 1 ci dice in sostanza che l’informazione disponibile è finita. Se di una particella misuro due proprietà, il prodotto di queste proprietà non può essere inferiore alla metà della costante di Planck; questo significa appunto che la quantità di informazione rilevante è finita. Al di là di un tot non si può andare. Ma il punto è proprio il termine rilevante. Dato il ruolo dell’osservatore nel determinare le proprietà di un corpo, una volta effettuata una prima misurazione, che estrae un dato significativo, alla seconda misurazione questo dato cesserà di esserlo e l’oggetto misurato sarà pronto a svelare sempre nuova informazione. In quest’ottica, la ricerca scientifica diventa qualcosa di intimamente evolutivo, un processo che non potrà mai arrestarsi e che chiede a chi vi partecipa la disponibilità al mutamento continuo.
E questa considerazione ci permette di arrivare all’ultima parte del libro, dove Rovelli racconta le vicende storiche che videro coinvolti due altri grandi attori di questa rivoluzione storica: Mach e Bogdanov.
Ernst Mach (1838 – 1913) fu uno scienziato che influenzò molto sia Einstein sia Heisenberg nello sviluppo delle loro teorie. Al cuore delle sue argomentazione vi è la presa di posizione decisa circa le sensazioni, che sono a suo dire l’unica componente reale del mondo (un mondo privo di essenza appunto): noi conosciamo solo sensazioni, e compito della scienza è studiare come queste sensazioni si organizzano per fornirne una descrizione corretta di ciò che è. Una posizione del genere è definita empiriocriticismo, ovvero una lettura materialista del reale ma critica, non ingenua. Molto spesso infatti le sensazioni sono gravate dal peso ideologico della società, e da sensazioni semplici il passo alle percezioni ideologiche è breve. Aleksandr Bogdanov difese questo approccio nel 1904, in un testo che voleva essere il quadro teorico entro cui avrebbe dovuto muoversi la rivoluzione russa; Lenin però, lesse in questo testo una minaccia alle sue posizioni, al suo materialismo, e rispose cinque anni dopo con Materialismo ed empiriocriticismo, in cui bollava la tesi del rivale di idealismo; in effetti è facile confondere la tesi sulle sensazioni come fondamento come un ripiegamento idealistico sull’autonomia del soggetto; ma questa non era l’intento di Mach e neppure di Bogdanov, anzi, essi puntavano all’opposto, a slegare cioè il soggetto conoscente dalla falsa idea di uno spirito immateriale che supervisiona l’attività conoscitiva. Prima Mach e Bogdanov, e poi Einstein e Heisenberg, cercano di sostituire il punto privilegiato della conoscenza, assunto come meta del conoscere dalla cultura occidentale da Sant’Agostino in poi, con pochissime eccezioni, con una conoscenza relativa, in cui il risultato dell’incontro tra due oggetti è esso stesso relativo, nodo attorno a cui si sviluppano tutte le conoscenze successive.

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