Recensione: Rowan Hisayo Buchanan, Innocua come te

Rowan Hisayo Buchanan
INNOCUA COME TE
Edizioni Codice, pp. 354, € 19
Traduzione di Fabio Viola

Questo romanzo racconta sia una vicenda familiare – un figlio che cresce senza la madre – sia una vicenda individuale – un’artista alla ricerca della sua realizzazione – e lo fa in modo convincente. Yuki e Jay, questi i nomi due due protagonisti, raccontano le loro vite rispettive, nella New York del ‘68 ed in quella odierna, intrecciando ad esse le persone che hanno avuto vicino e la loro ricerca di un senso. Questo pare proprio essere il punto chiave, la ricerca del senso. Per l’artista – Yuki – il senso è nascosto negli oggetti che cerca di rappresentare e tra le pieghe di una vita da immigrata; per suo figlio, gallerista d’arte, questo senso è più nelle persone e questa differenza, il senso in sé e la subordinazione del senso al contesto personale, è la differenza che esiste tra chi sceglie la vita dell’artista e chi, più prosaicamente, s’accontenta d’una vita vissuta. Non è una differenza banale.
L’autrice, figlia di padre inglese e madre giapponese, sembra trasferire la sua esperienza nella vita di Yuki, che a diciassette anni sceglie di restare in America e non seguire i genitori che tornano in Giappone, ma la collega molto bene all’invenzione del figlio Jay, gallerista a New York, sposato da poco e neo padre da pochissimo, padrone di un gatto, Spynks, che si porta appresso come la coperta di Linus. Un romanzo molto espressivo, in grado di parlare dell’indicibile intersezione della vita con l’arte e del fatto che, inevitabilmente, una delle due debba avere la meglio a scapito dell’altra.

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