Zygmunt Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti: falso!
Laterza, pp. 95. Euro 9
Traduzione Michele Sampaolo
Fare acquisti o non fare acquisti, questo è il problema, p. 64
Novantacinque pagine per ribadire concetti già noti, ma riscritti e ribaditi con il solito piglio; quindi un libricino d’occasione che è anche un bignami per chiarire la situazione di disastro sociale che il postcapitalismo si sta lasciando alle spalle. L’occasione è la collana che Laterza ha lanciato chiamando in causa i suoi scrittori di spicco per ribattere con i fatti documentati ai luoghi comuni costruiti sul nulla su cui si basa la cattiva ideologia di questo tardo capitalismo in cui viviamo.
Bauman si pronuncia contro l’idea che si afferma negli anni ’80, lontana erede del periodo di rivoluzione sociale che vide nascere il capitalismo. In essa si afferma appunto che l’egoismo elevato a norma morale di comportamento è accettabile: se uno lavora duramente per se stesso e per la sua cerchia (ristretta, ovviamente: ma quanto?) avremo un effetto a cascata di cui beneficerà l’intero corpus sociale. Questo elemento è frutto specifico della rivoluzione industriale riportato in auge negli anni della signora Thatcher. L’ultima crisi finanziaria, scoppiata nel 2007, dimostra che le cose non stanno così. Quando la ricchezza cresceva in termini assoluti essa andava accentrandosi nelle mani di pochi, ma la disponibilità generale teneva la cosa sotto controllo, nascosta. La gente non si accorgeva che, in termini assoluti, diventava più povera. Ora che la ricchezza totale disponibile tende a diminuire, essa resta concentrata nelle fasce alte mentre i meno abbienti sono quelli che più risentono di detta diminuzione: “…l’aumento della ‘ricchezza totale’ va di pari passo con l’approfondirsi della disuguaglianza sociale e con l’ulteriore allargamento del già incolmabile divario fra la sicurezza esistenziale e il benessere generale del vertice della piramide sociale e la situazione delle fasce inferiori” (p. 44). La ricchezza di pochi – le 100 persone più ricche possiedono un reddito pari alla somma dei redditi di due miliardi e mezzo di persone della fascia più povera – non avvantaggia tutti, anzi.
Il problema a questo punto è che nessuno di chi è alle redini del sistema – ammesso ma non concesso che questo qualcuno esista, o addirittura che esista un ‘sistema’ – pare in grado di trovare altra risposta che un incentivo ai consumi per fare ripartire la guasta macchina del capitalismo. Da qui l’utilizzo di parametri quali il PIL ed il livello di consumo per valutare il benessere: “Il messaggio difficilmente potrebbe essere più chiaro: la strada per la felicità passa attraverso lo shopping; la somma totale dell’attività degli acquisti della nazione è il metro principale e meno fallibile della felicità personale” (p. 56). Anche chi è escluso per nascita originaria e censo attuale da tale rincorsa al consumo non sembra in grado di concepire altro per risolvere il proprio disagio esistenziale: ! “…il disperato desiderio degli esclusi di entrare nel paradiso dei consumatori per almeno un rapido momento piuttosto che la loro intenzione di mettere in questione e sfidare il dogma fondamentale della società consumistica: l’assioma che il perseguimento della felicità consista nel fare acquisti e che la felicità debba essere ricercata e aspetti di essere trovata sugli scaffali dei negozi” (p. 60). Non vi è quindi più un disagio sociale, ma un disagio individuale, soggettivo: “Il dissenso soffre di gran parte degli altri aspetti della collettività umana: tende ad essere, per così dire, ‘deregolato’ e ‘individualizzato’” (p. 60).
Il dissenso può evidentemente fondarsi solo se è sostenuto collettivamente, se si basa su un’idea; il dissenso individuale alla lunga non diventa altro che piagnisteo, perché l’idea che gli sta dietro non ha basi empiriche e quindi razionali, ma solo esistenziali e quindi emotive. Le rivendicazioni odierne, presto o tardi, diventano rivendicazioni emotive, rivendicazioni di diritti. Che sulla carta vengono spesso concessi, ma che di fatto sottendono ben poco: “L’idea dei diritti umani viene attualmente utilizzata per sostituire ed eliminare il concetto di buona politica, mentre per essere realistica quell’idea non può che essere fondata sull’idea di bene comune” (p. 67). Concedere diritti senza mettere in atto una politica economica che consenta a tali diritti di essere esercitati vale ben poco.
Bauman è chiaramente un filosofo vecchio stampo, fedele alla tradizione dell’illuminismo; pur in buona fede, non si accorge che fondare l’idea della possibilità di una buona politica sul concetto di bene comune cade nella critica alla generalizzata trasformazione di ogni conflitto generale in conflitto particolare. Il bene comune è un’idea forte dell’illuminismo ma è, appunto, un’idea. Anche ciò che è bene comune diventa soggettivo, individuale; diventa così difficile fondare una politica per tutti su questo concetto. Del resto, ogni affermazione modernista si rivela contraddittoria sotto le luci del postmoderno. Ciò non toglie la necessità di continuare a sostenerle.
Se vogliamo un nuovo illuminismo, un illuminismo che non deve più combattere solo contro la scarsità ma anche e soprattutto con un corpus di idee che dello spettro della scarsità fa la molla che spinge i poveri a lottare tra di loro, dobbiamo appropriarci di idee nuove per rispecchiare la realtà. Idee più adeguate per raffigurarsi ciò che esiste realmente. Se il dissenso è individuale, perché è venuta meno la stessa possibilità di un’organizzazione complessiva del dissenso, anche la prassi di contestazione deve essere individuale. Dato che la politica, la finta politica che amministra l’esistente senza la minima prospettiva di un’alternativa, ha come unica risposta alla crisi l’incentivazione del consumo, il dissenso deve manifestarsi principalmente in questo ambito. E sperare che la ‘buona politica’, se esiste ancora, raccolga il segnale.
Non consumo ergo sum?