Paolo Gila, Capitalesimo
Bollati Boringhieri, pp. 265, euro 16.50
Per affrontare un discorso complesso può essere utile individuare un evento, o una serie di eventi, accaduto/i nel passato, ricavarne la struttura generale ed applicarla al nuovo fatto che si vuole esporre discorsivamente. Il bravo Paolo Gila, giornalista economico di evidente preparazione, riesce in gran parte nell’arduo tentativo di trovare un evento per descrivere la fase di transizione che il capitalismo, messo in surplace da una crisi estremamente grave, sta attraversando; si tratta del periodo del feudalesimo, i cui meccanismi di gestione del potere vengono oggi applicati nascostamente da tutti, in barba alle regole di convivenza democratica.
Per capire le minuziose argomentazioni che Gila porta per asseverare la sua tesi occorre accettare il suo punto di partenza. La fase storica attuale segna il passaggio da una gestione del potere di tipo machiavellico ad una improntata alla teoria di Giordano Bruno: “Nel capitalesimo il ruolo di Machiavelli con il suo armamentario di strumenti per la lotta ed il dominio anche violenti sarà notevolmente ridimensionato, a tutto vantaggio della figura di Giordano Bruno, i cui utensili intellettuali sono decisamente orientati al consenso, all’approvazione, all’immaginario. Non che cambi lo scopo della coercizione: saranno però diversi i mezzi per raggiungerla. In un caso il simbolo di riferimento erano le catene. Nell’altro a vincere è il convincimento per induzione mentale. Mezzi con cui si ottiene ciò che si vuole senz’altro sforzo, se non con l’utilizzo di tecniche psicologiche e di comunicazione sociale. “L’artefice lega con l’arte, poiché l’arte è la bellezza dell’artefice”, sosteneva Giordano Bruno. Certo, è il ritorno alla magia e conviene prenderne atto” (p. 29).
Una soluzione magica dei problemi, tutta basata sul dato visivo apparente e non sulla ragione, ecco quello che ci aspetta: “Nell’era del capitalesimo le relazioni tra gli uomini non vengono più incernierate al dialogo e alla ragione: esisterà meno dialettica e più sottomissione, anche se mascherata da un apparente consenso” (p. 40). Ma il dato visivo di per sé non è ovviamente sufficiente a mantenere la pace sociale; ecco allora che i veri padroni del vapore, i super ricchi che detengono larga parte della ricchezza mondiale mentre milioni di persone comuni vanno incontro a condizioni di vita sempre più difficili, mettono in campo i loro agenti. Costoro sono politici e giuristi che forniscono le regole in base alle quali viviamo, giornalisti che ci spiegano i fatti che osserviamo, guru della moda e dell’arte che hanno il compito di formattare in senso estetico il popolo. Tutta questa fascia media svolge un ruolo di filtro tra la fascia alta della popolazione e quella bassa. Attraverso la diffusione estesa di un modello di vita ideale condizionano la gente comune a credere che questo modello di vita sia giusto e, soprattutto, raggiungibile.
La parte centrale del libro è dedicata all’analisi delle varie agenzie messe in campo per gestire in senso capitalistico ogni aspetto della vita sociale. Ad esempio, le associazioni benefiche svolgono il ruolo che nel medioevo era svolto dagli ordini monastici, di assistenza e soccorso dei meno fortunati. Tale soccorso era fornito a testimonianza della benignità di Dio, questo soccorso viene fornito tenendo presente che la stessa struttura assistenziale deve vivere, e lo può fare solo se rispetta i principi del capitalismo; un nuovo dio, evidentemente. Altri esempi sono la gestione degli eserciti e del tempo libero della popolazione.
Il discorso sviluppato nel libro vuole mettere in evidenza il fatto che la gestione non democratica del potere è ormai accettata a tutti i livelli. Le regole del mercato, trasparenza e controllo, valgono più o meno al livello basso. Più si sale nella scala gerarchica e più le regole cambiano, non sono più richieste abilità particolari o il rispetto di criteri elettivi. Ciò che conta è essere inseriti nella rete del potere e non fare niente che possa cambiare direzione alla macchina.
“Guardando il sistema dall’esterno, si scopre che la democrazia e il mercato libero esistono solo per una zona della filiera, la prima parte della scala sociale, quella più bassa, dove le regola, la trasparenza e la rappresentatività mantengono un certo senso. (…). Ma laddove la scala finisce e comincia il Cielo con le sue nuvole e le sue ombre il discorso cambia e valgono altre leggi, altre consuetudini, come la cooptazione, i trust, le assegnazioni, gli incarichi. E’ l’area grigia dove le investiture, mai morte anch’esse, regnano sovrane” (p. 249).
Pare dunque che il capitalesimo abbia sconfitto le richieste di equità sociale nate con l’illuminismo, equità sociale che viene mantenuta come un paravento dietro il quale si agita la moltitudine di chi cerca di vivere secondo questa equità ideale; eppure noi viviamo in un mondo materiale che ha ancora molte possibilità di giustizia per tutti, a patto che tutti insieme si rifiuti il modello spacciato per valido dai servi del potere. Come dice Arundhati Roy (cfr. p. 249) occorre che i popoli smettano di essere “stregati dall’equazione tra consumismo insensato, felicità e realizzazione di sé.”
La vacuità del consumo si lega a doppio filo alla struttura del capitalesimo. Se si consuma ciò che non serve alla felicità si ipoteca il proprio futuro, e quello dei propri figli. Non è possibile costruire una socialità democratica basata sul debito perché per rifuggire il debito le persone sono disposte a tutto, anche a chiudere gli occhi di fronte alla mancanza di democrazia.
Capitalesimo.