Zygmunt Bauman, Consumo dunque sono, Laterza.

Zygmunt Bauman, Consumo dunque sono

Laterza, pp. 187, euro 15

Traduzione Marco Cupellaro

 

Viviamo in un mondo retto dal principio di causa-effetto. Niente di ciò che succede resta senza una conseguenza, sebbene spesso le conseguenze si esauriscano velocemente, riassorbite dal funzionamento generale. Il lavoro teorico che René Descartes compì alla metà del ‘600 contribuì a rendere effettiva a livello astratto una scissione che si sarebbe prolungata fino ai nostri giorni; fu uno di quegli avvenimenti le cui conseguenze durano nel tempo. Nello specifico,  Cartesio separò il soggetto dall’oggetto – anche se questo evento aveva avuto inizio già nel tardo medioevo – mantenendo però la subordinazione del secondo al primo, almeno in teoria. Di fatto l’oggetto si rese indipendente, dando il là  in maniera massiccia al processo di alienazione dell’uomo da se stesso. Il percorso storico seguito dall’umanità dal rinascimento in avanti si è basato sulla necessità della produzione come momento fondante del soggetto. Alla fine della seconda guerra mondiale le cose sono un po’ cambiate. Si è passati gradualmente dall’uomo/cittadino=produttore al soggetto=consumatore “…la società dei consumi è perlopiù rappresentata come incentrata sulle relazioni tra il consumatore, saldamente collocato nello status del soggetto cartesiano, e la merce, nel ruolo dell’oggetto di Cartesio…”, (p. 16). Proprio come la teoria cartesiana è stata da molti interpretata come teoria dell’indipendenza del soggetto dall’oggetto, così la società dei consumi viene normalmente vista come luogo dove l’individuo è libero rispetto alla merce che può consumare.

Secondo Bauman questo è l’inganno supremo della nostra società. Noi non siamo definitivi rispetto agli oggetti che ‘scegliamo’ di consumare ma sono loro in effetti a definire il nostro essere soggetti. Chi non consuma gli oggetti prescritti rischia in ogni momento di essere estromesso dalla società.

Il consumo è però consustanziale all’uomo. Da che vi è uomo, vi è società e dato che l’uomo ha sempre consumato qualcosa, anche la società che è composta da uomini ha sempre consumato. Ma una cosa è consumare per soddisfare i bisogni fondamentali, come è stato fino agli anni ’40, altra cosa è consumare perché nell’atto stesso di consumare è racchiuso il senso della vita: “…il consumismo, in netto contrasto con le precedenti forme di vita, associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni (come tendono a far credere le sue credenziali ufficiali), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell’intensità dei desideri” (p. 40).

Quando l’individuo inizia a seguire i desideri indotti dalla pubblicità perde di vista la sua finitezza di essere umano, poiché i desideri, essendo immateriali, possono essere infiniti. Cade così nel cattivo infinito (quello della quantità) perdendo di vista la possibilità stessa di un infinito positivo, quello della qualità (il divino o l’umano, a seconda che siate credenti o illuministi). Si trova così costretto alla costruzione di un’identità frammentaria, dipendente dagli oggetti che mano a mano acquisisce senza che a nessuno riesca a fermarsi: “La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nell’acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel librarsi di ciò che è stato acquisito l’altro ieri e orgogliosamente ostentato oggi. Consiste, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento” (p. 123). Questo infinito, eterno e costante movimento fa sì che la vita non sia più costituita da un’unica linea, o da un circolo che si chiude, ma da una successione di punti, indipendenti l’uno dall’altro e non necessariamente coerenti: “Il tempo viene vissuto da chi fa parte della società dei consumatori liquido-moderna come qualcosa che non è ciclico o lineare com’era invece per altre società della storia. Esso è invece per utilizzare la metafora di Michel Maffesoli, puntinista o, come lo definisce Nicole Aubert, con espressione quasi sinonimica, punteggiato: contrassegnato cioè da un’abbondanza di rotture e discontinuità, da intervalli che separano i diversi punti e ne interrompono il collegamento, più che dallo specifico contenuto dei punti stessi. Il tempo puntinista si distingue per la sua incoerenza e mancanza di coesione…” (p. 41).

Data la sua incapacità strutturale a restare fermo – ad accontentarsi – il soggetto della società consumistica è indotto a credere che il suo movimento sia una libera scelta perché solo supponendo una libertà è possibile giustificare l’insoddisfazione: “E’ stata individuata e messa in funzione un’altra variante del processo di civilizzazione, un modo alternativo e visibilmente più comodo in cui continuare a svolgere tale processo. Questo nuovo modo, attuato dalla società dei consumatori liquido-moderna, non genera, o quasi, dissenso, resistenza o ribellione, grazie all’espediente di presentare il nuovo obbligo (l’obbligo di scegliere) come libertà di scelta” (p. 94). Come ampiamente documentato da Foucault la società ha gradualmente spostato il luogo di controllo sugli individui nella loro coscienza. Non vi è più quindi la repressione diretta dei bisogni, ma sovraesposizione ai desideri/bisogni che possono (devono) essere soddisfatti.

La trasformazione della vita in una serie incoerente di momenti, ha fatto sì che per il cittadino qualunque venisse a perdere interesse ogni idea di progettualità politica: “La grande frattura che separa nel più netto modo possibile la sindrome culturale consumistica della precedente sindrome produttivistica, quella che tiene l’insieme delle tante e diverse spinte, intuizioni e propensioni elevando il tutto a programma di vita coerente, sembra essere il rovesciamento dei valori legati rispettivamente alla durata e alla transitorietà” (p. 107).  Ciò  che è transitorio pare oggi rivestire un’importanza uguale se non maggiore rispetto a ciò che è durevole; meglio, l’unica cosa durevole rivendicata dal cittadino è il suo diritto a consumare oggetti in maniera transitoria: “L’attivismo dei consumatori è sintomo del crescente disincanto nei confronti della politica. Per citare Neil Lawson, “in mancanza di altro su cui fare affidamento, è probabile che le persone perdano la stessa nozione di collettività, e con essa ogni idea di società democratica, per ripiegare sul mercato come arbitro (e, vorrei aggiungere, sulle proprie capacità e attività in quanto consumatori)” (p. 183).

Bauman, in quanto sociologo, richiamandosi direttamente a Weber rivendica il suo diritto a fornire una chiave di lettura generale della società, senza che questa lettura debba necessariamente scontrarsi con realtà che non le si adeguano in toto. In altri termini, anche se voi frequentate un ambiente che, a vostro parere, non può definirsi eminentemente consumistico ciò non toglie che vi siano una maggioranza di gruppi di interesse la cui vita, il cui modello di vita, è legato al consumo. L’attuale realtà sociale, estremamente frammentaria, non è più composta da grandi blocchi di interesse che si muovono compatti, ma da una miriade di interessi particolari che seguono tutti, chi più chi meno, la strada indicata dall’homo consumens. Ed anche se il vostro gruppo di riferimento apparentemente non consuma tanto – autoassoluzione? – può comportarsi in tal modo solo perché inserito nello sciame che rincorre il mito dell’uomo che non deve chiedere.

Mai.

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