Recensione: Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo

Thomas Piketty
IL CAPITALE NEL XXI SECOLO
Edizioni Bompiani, pp. 928, € 22
traduzione Sergio Arecco

Il libro di Piketty nasce dall’osservazione dei fatti e dal bisogno di difendere un’idea di senso comune che è stata nascosta dall’affermazione del capitalismo finanziario. Ecco l’idea: redditi alti e capitali consistenti in mano ad una minoranza di persone, fatti abbinati ad un rallentamento della crescita, non servono all’affermazione di una società democratica. Il senso comune, purtroppo, è andato smarrito nel corso degli anni e quindi è inutile riferirsi ad esso; può essere comunque una buona base da cui far partire il discorso di Piketty. Detto discorso risulterà più chiaro se ne anticipiamo le conclusioni: “La soluzione di gran lunga più soddisfacente per ridurre il debito pubblico consiste nel prelievo di un’imposta eccezionale sul capitale privato” (p. 864). Ricordo anche che, al suo apparire, questo libro era stato presentato come il libro del teorico antimarxista che dà ragione a Marx. Questa affermazione circa la necessità di una tassazione eccezionale – imposta confiscatoria la chiama – potrebbe richiamare idee di statalizzazione che rimandano alla Russia postrivoluzionaria e quindi una certa affinità con il marxismo delle origini. Una lettura attenta del volume però rivelerà che nulla è più lontano dalla mentalità di Piketty. Basandosi solo sui dati compie un’analisi sociale molto distante da quella di Marx per quanto riguarda il metodo ma che, per molti punti, ne condivide le conclusioni.
Noi viviamo, sostiene Piketty, in una società che sta assistendo impassibile e in molti casi consenziente al ritorno del capitale sul trono da cui si dirigono le sorti dell’umanità. Fino al ‘700 l’uomo aveva abitato un mondo in cui il cambiamento era molto raro. Le condizioni di vita delle persone, sul lungo periodo, erano nella quasi totalità dei casi determinate dal punto di partenza; nessun merito individuale permetteva di spezzare i vincoli di nascita. Dall’inizio dell’800 però le cose sembrano darsi una mossa. L’uomo inizia a divenire veramente centro del suo possibile futuro. Prima dello scoppio della grande guerra il tutto subisce un’accelerazione che mantiene la propria spinta fino agli anni ’70. Poi arrivano La Tatcher, Reagan e le lancette dell’orologio sembrano fare un balzo all’indietro. Date un’occhiata al grafico del libro, da cui si evince che nel breve intervallo di tempo fra la fine dell’800 e i dorati anni ’70 il lavoro è stato più dell’eredità in grado di garantire alti livelli di vita:

I grafici e le tabelle sono onnipresenti in questo lavoro, e quella allegata sopra è solo la prima di innumerevoli.  A differenza di Marx, che secondo Piketty  “a dispetto di (…) importanti intuizioni, mantiene un approccio più aneddotico che sistematico alle statistiche disponibili (p. 352)”, l’economista francese non ha per scopo sollevare la società contro il nemico capitalista; in questo senso Piketty è non marxista, non fa cioè uso di casi specifici per costruire leggi generali che probabilmente non esistono. Suo scopo è segnalare la profonda ingiustizia sociale, che è sempre stata comunque parte del retaggio dell’umanità, insita in un mondo in cui il passato è più utile del presente, e per ovvia conseguenza anche del futuro nel determinare il destino di una persona. Lo scopo di Piketty è di ristabilire una economia politica forte, una base teorica su cui i politici del XXI secolo possano lavorare per contrastare quella che sembra una tendenza inarrestabile. Questa tendenza, a sua volta, è la conseguenza naturale di un rallentamento generale della società nel suo complesso. Solo in una realtà in veloce mutamento e accrescimento è possibile che il capitale ceda il passo al lavoro quale elemento di status. Se la società è ferma si fanno poche cose; è ovvio allora che il lavoro perderà di importanza.

Se il tasso di crescita si mantiene elevato è normale che la gente investa i suoi soldi in attività produttive che, a loro volta, fanno mutare la società e garantiscono così, in qualche misura la democrazia. La democrazia, ricordiamolo, è solo un’approssimazione, forse la migliore disponibile, ad una società giusta. Una società che non cresce non è né giusta né democratica, come lo sono state le varie civiltà fino al sorgere dell’illuminismo. Ora però l’illuminismo pare giunto al termine della sua corsa, troppo affidata all’illusione dell’imparzialità della tecnologia. Sempre più si fa sentire il bisogno di una politica forte, che riprenda le redini dell’umanità e la conduca fuori dalle secche in cui pare essersi impantanata. Una politica che però non si deve trasformare in una dittatura ideologica ma che prenda semplicemente atto delle stortura connaturate al capitalismo e vi ponga un argine. Il mezzo individuato da Piketty è una politica fiscale seria, che consenta la ridistribuzione del reddito ed elimini situazioni paradossali come quella americano in cui il 45% del reddito nazionale è detenuto dal decile superiore della popolazione: “… il ricorso a tassi confiscatori per tassare i vertici della gerarchia dei redditi non è soltanto possibile ma è anche l’unico modo per contenere le derive osservate ai vertici delle grandi imprese” (p. 808).
Una precisazione è necessaria a questo punto. Piketty non sostiene una banale, e storicamente senza effetto, ridistribuzione dall’alto al basso dei redditi. Il suo è un discorso di economia politica. Sostiene che se politicamente si impedisce un accumulo di ricchezze si dovrebbe avere come effetto meccanico una società più giusta. E’ sciocco affidarsi ad un umanesimo ingenuo e auspicare la benevolenza dei mercati, e dei ricchi che dei mercati si nutrono; il capitale nei secoli passati aveva una sua logica e in base ad essa si è sviluppato. L’attuale possibilità di osservare questo suo procedere storico deve istruirci su come intervenire affinché il suo procedere futuro possa essere diverso, meno economico diciamo.
Il discorso del libro è lungo, articolato e ben documentato. Però, come per ogni lavoro statistico, la purezza dei dati è un’illusione. Ci sarà sempre chi, dalla parte opposta, accuserà i dati presentati di una lettura ideologica e faziosa, presentando al contempo prove a smentita. Ma il punto non sta, ovviamente, nel dato di fatto. Ogni dato empirico è sempre smentibile da un altro dato empirico, non foss’altro da un’eccezione alla regola. E chiaro che il dibattito deve svolgersi al livello delle idee, dei principi. Se si lavora sui fatti, non si farà altro che produrre altri fatti di poco dissimili – se lo saranno! – dai fatti di partenza. Solo le idee possono trasformare la realtà prima che la realtà, illusoriamente, trasformi se stessa perpetuandosi.

Il libro di Piketty non è troppo complicato, richiede solo una certa attenzione e dedizione. Sono comunque più di 900 pagine. Chi non avesse il tempo per affrontarlo può approfittare della riduzione del libro (in francese e in inglese) che lo stesso Piketty ha fornito sul suo sito.
Nella mia presentazione non ho fatto altro che esporre il punto saliente, non avendo il tempo materiale per affrontare un’ esposizione organica e riassuntiva dei contenuti. Le tabelle e i grafici del libro sono comunque estremamente interessanti e ciascuno meriterebbe una discussione. Ad esempio osservate il grafico che mostra l’evoluzione storica del livello di tassazione nei paesi ricchi:

che illustra il pericolo di un ritorno ai tempi della belle epoque.
Oppure quello che mostra la posizione patrimoniale dei paesi ricchi rispetto al resto del mondo:

da cui si evince che “… l’occultamento di una quota importante degli attivi finanziari mondiali nei paradisi fiscali limita fin d’ora, in misura rilevante, la nostra capacità di analizzare la geografia mondiale dei patrimoni. Stando ai dati ufficiali pubblicati dagli istituti statistici dei vari paesi e raccolti dagli organismi internazionali (a cominciare dal FMI), la posizione patrimoniale dei paesi ricchi rispetto al resto del mondo sembrerebbe negativa” (p. 723). Che i poveri debbano dei soldi ai ricchi, ecco il senso del capitale nel XXI secolo.

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