Recensione: Chimamanda Ngozi Adichie, Metà di un sole giallo

Chimamanda Ngozi Adichie
METÀ DI UN SOLE GIALLO
Edizioni Einaudi, pp. 456, € 14
Traduzione di Susanna Basso

Quando ero piccolo, mio padre mi rimproverava – e non mi faceva alzare da tavola – quando avanzavo del cibo; mi diceva, minaccioso, di pensare ai bambini del Biafra. Questo luogo mitico non l’ho più incontrato da allora, risucchiato dalla storia e scomparso dalla geografia, fino alla lettura di questo libro. In esso, oltre alle vicende personali di Osanna e della sua famiglia, si parla proprio della guerra civile che, dal 1967 al 1970, provocò un milione e mezzo di morti sulle coste sud orientali della Nigeria.
Il Biafra infatti è la fascia costiera della Nigeria. Agli inizi degli anni ’60 conosciamo Osanna, Odenigbo e Kainene. I primi due sono una coppia, lei bellissima lui colto e forte; insegnano entrambi nella neonata università della regione ancora nigeriana del Biafra. E’ un periodo di forte spinta al progresso, alla consapevolezza del popolo, e i due incarnano alla perfezione questi ideali. Kainene invece è la sorella brutta, dotata però di una fortissima personalità, che fa di lei l’erede diretta delle numerose attività che il padre imprenditore ha sul territorio. Arriva poi Richard, inglese in fuga dal destino piatto che l’attende in patria. Vuole scrivere, entra nel giro di Osanna e Odenigbo e così conosce Kainene, di cui si innamora.
A questo punto la storia, costruita con attenzione e stile esemplare, si fa drammatica, perché ci spostiamo dopo la metà degli anni sessanta, quando la guerra sta per iniziare, poi inizia, e mano a mano i nostri personaggi vedono cadere le certezze e le tranquillità su cui le loro vite erano basate. Al dramma storico e sociale che abbiamo iniziato a intuire, e che vedrà la conclusione nell’ultima parte, si abbina il dramma personale delle due famiglie, che l’autrice ci fa conoscere nei dettagli riportandoci nella prima metà degli anni sessanta.
L’aspetto più sconvolgente della vicenda non è tanto l’atrocità dimenticata – oggi ancora qualcuno si ricorda di Utu e Tutzi ma pochi hanno un’idea precisa del Biafra – quanto la poca consapevolezza del proprio destino che anche persone preparate e colte come Osanna e Odenigbo avevano. Continuare a credere nella vittoria e nell’indipendenza del Biafra anche a poche settimane dalla fine, è il segno mostruoso di quanto l’idealismo e la fede malriposta possano ingannare le persone. Solo la sorella brutta e cinica, Kainene, che alla fine mostrerà tutto il suo essere umana, mantiene una chiara percezione delle cose ed il suo destino finale, simile a quello del Biafra, chiude alla perfezione il romanzo.
L’autrice è nigeriana, bambina negli anni successivi alla guerra. La storia che ci racconta è il frutto di una lavoro serio su materiale difficile, che ha raccolto nei libri ma probabilmente anche in una tradizione orale nella quale ha vissuto. Così abbiamo una storia dura, addolcita della vicenda parallela di Ugwu, il servitore che Osanna prende con sé ragazzino e che cresce in mezzo agli orrori della guerra e alle piacevolezze di una vita protetta. Ugwu passa tutte le incarnazioni forse necessarie per maturare appieno. Prima incolto e volenteroso, poi piano piano più capace e sveglio, poi innamorato, infine anche feroce soldato. In questo modo Ugwu diventa osservatore consapevole di ciò che lo circonda; sarà lui a raccogliere il testimone lasciato cadere da Richard, che si riconosce incapace di scrivere, e che racconterà la sua storia in un libro, che potrebbe essere quello che leggiamo, ma che lui chiama Il mondo taceva mentre noi morivamo.
Mentre moriva la metà di un sole giallo.

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