Recensione: Zygmunt Bauman, Retrotopia

Zygmunt Bauman
RETROTOPIA
Edizioni Laterza, pp. 169, € 15,00
Traduzione Marco Cupellaro

La lettura di questo libro ci conferma nell’idea che la morte di Zygmunt Buaman ha privato il panorama di uno degli ultimi fari che potessero ancora guidare in avanti le idee dell’illuminismo. Queste idee, che a stento sopravvivono in individualità sotto l’assedio delle spinte contrarie, trovano espressione nella frase con cui Bauman chiude il libro e che ci condurrà, a ritroso, all’analisi dello stesso: “La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale” (p. 167).
Una responsabilità condivisa è ciò che contraddistingue una società che voglia agire in vista di un bene comune, una società appunto illuminata. Nella situazione attuale si vive però in un ambiente completamente avverso a questa situazione, un ambiente in cui domina il principio hobbesiano dell’homo homini lupus. Questa constatazione empirica che ciascuno può fare in proprio ha l’effetto di spingere i gruppi sociali, che non sono però più gruppi uniti da un’ideologia mirante all’esterno, alla condivisione e alla discussione, a chiudersi. Si ha così l’effetto del passaggio dall’idea del progresso inevitabile, che ha caratterizzato la storia dall’inizio dell’800 fino al primo dopoguerra, a quella che Bauman definisce come un’epidemia globale di nostalgia (introduzione, p. XIV). Questa nostalgia è il rimpianto per una mitica età dell’oro, in cui si viveva tutti meglio e più sicuri, ed è nel contempo l’abbandono di ogni speranza per la gestione del futuro. Il ritorno alla tribù, componente centrale dell’ideologia populista in ogni angolo del mondo, assolve il singolo dalla scelta e lo garantisce dai rischi. A rinforzare questo atteggiamento, che risolve l’insanabile conflitto dialettico tra sé libero e sé sicuro, è subentrato l’aspetto tecnologico delle nostre vite. All’interno del mondo virtuale creato da internet si costituiscono enclave più o meno ristrette in cui ogni appartenente assume un atteggiamento, ideale e pratico, ritenuto valido: “ La condotta emulativa è uno strumento perfettamente adatto a fornire una soluzione ideale di questo tipo per quest’angoscia bifronte (individualismo ed appartenenza al gruppo); ed è internet a rendere possibile il ricorso a questo strumento, virtualmente inapplicabile in un contesto off-line irriducibile ed endemicamente pluralista” (p. 24). La perdita del pluralismo come forma democratica di gestione della cosa pubblica fa sì che l’unica risposta possibile della politica è un arroccamento su posizioni indifendibili, alternativamente globalizzanti, e quindi minacciose, o localistiche, e quindi escludenti: “la rinascita della mentalità tribale (…) sembrerebbe essere una reazione pubblica più o meno spontanea alle ampie ma incoerenti trasformazioni delle condizioni di vita che, nel loro insieme, fanno somigliare il presente a una terra straniera, non meno di quanto apparisse straniero il passato se visto con gli occhi del nostro mondo moderno….” (pp. 50-51).
“Una volta privata del potere di modellare il futuro, la politica tende a trasferirsi nello spazio della memoria collettiva: uno spazio infinitamente più manipolabile e gestibile…” (p. 55). Il riferimento ad un passato cui giurare fedeltà è chiaramente, oggi, un passaggio obbligato per la politica. Chi più chi meno, ogni movimento politico si trova di fronte un futuro imprevedibile ed un presente incerto; il populismo gioca quindi la carta del ritorno al passato, quando si stava tutti meglio, ottenendo in tal modo un ampio successo; a questo mito del passato abbina lo spauracchio dello straniero, la creazione del nemico e l’idea della violazione dei confini. Il successo di questa falsa impostazione dei problemi è l’indice delle difficoltà dell’ideale illuminista che vuole sia riconosciuta umanità, e quindi diritti, ad ogni appartenente al genere umano. Il sistema si è messo verso una trasformazione dei diritti automatici in diritti da acquisire, traducendoli quindi in merce. Se i miei diritti li devo comprare sul mercato, io sono solo a combattere. Cade quindi l’ideale di una coalizione dei meno abbienti, che ha sostenuto per decenni il comunismo, lasciando lo spazio all’unica possibilità di lottare per se stessi. “Nella società individualizzata, la competizione per i vantaggi che sono universalmente ambiti ma restano ostinatamente scarsi non può che essere vissuta come un gioco a somma zero, (p. 97). La nostra società ha assistito negli ultimi decenni ad una concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi come non s’era mai visto, o meglio, come s’era visto solo nell’epoca preindustriale. La mancanza di un reddito individuale sicuro non fa altro che precipitare il soggetto nelle spire della tribù; la mancanza della sicurezza economica agisce contro la capacità di individuazione. Contro questo ritorno al passato, Bauman espone le tesi del reddito universale garantito (UBI, cfr. pp. 106 sgg).
A questo punto però, mi pare il caso di sottolineare la contraddittorietà insita nell’analisi di Bauman, una contraddittorietà ineliminabile in effetti da qualsivoglia progetto illuministico. Solo cogliendo questa contraddittorietà e focalizzandola, per far sì che le sue conseguenze non colgano impreparati i suoi sostenitori, possiamo sperare di darle una possibilità di crescita. Se noi viviamo in una società che ha tolto le basi per un agire di gruppo – “Quando l’unico possibile ambito di miglioramento è l’io, quando agire collettivamente non offre alcun vantaggio, la coscienza collettiva appare stolta, ingenua, svampita o, al contrario, immorale e sediziosa” (p. 118) – il singolo non ha autonomamente i mezzi per opporsi; ogni opposizione diviene più o meno casuale e dovuta alla volontà del soggetto. Noi viviamo in quella che Lasch, nel suo fondamentale La cultura del narcisismo, chiama l’epoca dell’uomo psicologico, che ha sostituito l’uomo economico, incarnazione dell’epoca del primo capitalismo. Ma questa sostituzione non va a vantaggio del gruppo, l’unico vantaggio lo ricava l’uomo psicologico che ha le basi economiche per esserlo; quindi non tutti gli uomini postmoderni possono diventare uomini psicologici, il modello dell’uomo postmoderno. Quando il ceto meno abbiente si trova culturalmente costretto ad affrontare in maniera ‘psicologica’ ovvero individuale, problemi economici ovvero materiali, ne esce inevitabilmente sconfitto. Da ciò l’incremento dell’insicurezza ed il ripiegamento su soluzioni ingannevoli – il ritorno alla tribù, ad una diseguaglianza vissuta senza patemi o, peggio che peggio, alla pace del grembo materno. La contraddizione di Bauman è ineliminabile; il passaggio dalla filosofia realista – esiste un unico mondo reale – alla filosofia nominalista – è solo questione di punti di vista – ha fatto sì che ogni affermazione circa la realtà debba essere validata individualmente. L’illuminismo è il tentativo di spingere le coscienze individuali verso un obiettivo comune che però non è, non può essere, auto evidente, ma deve essere scelto volontariamente, spesso anche a scapito di vantaggi personali. La rinuncia volontaria all’io come fulcro di ogni discorso è la precondizione del discorso di Bauman, la precondizione che scioglie la contraddizione che chiude il suo libro con queste parole che sono, dialetticamente, una minaccia e una speranza: “Noi – abitanti umani della terra – siamo, come mai prima d’ora, in una situazione di aut aut: possiamo scegliere se prenderci per mano o finire in una fossa comune” (p. 169).

 

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