RECENSIONE
David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza
Feltrinelli, pp. 278, euro 25
Traduzione Adele Oliveri
Questo libro nasce come una risposta alla recente crisi del sistema capitalistico internazionale; l’autore, un dotto professore, che da oltre quarant’anni tiene un corso monografico all’università di New York sul Capitale di Marx, cerca, attraverso pochi punti teorici e molti dati di fatto, di mostrare che le situazioni di crisi sono connaturate al capitalismo. In altre parole, non ci si può aspettare che una struttura economica nella quale pochi, sempre meno, detengono le leve del potere, che Harvey ortodossamente identifica con i mezzi di produzione, possa portare il benessere a tutti. Andiamo con ordine.
“L’esplosione del debito a partire dagli anni settanta è legata a un’importante questione di fondo che chiamo “il problema dell’assorbimento dell’eccedenza di capitale” (p. 38). Il capitalismo, per poter funzionare, deve permettere ai capitalisti di reinvestire ciò che deriva loro dal possesso dei mezzi di produzione, dallo sfruttamento ai danni del proletariato. Il reinvestimento è sempre stato diretto all’incremento della qualità dei mezzi di produzione (per aumentare lo sfruttamento, ma questo è un altro discorso); sempre no, in effetti: diciamo fino a poco tempo fa. Ad un certo punto il capitalista, chiamiamolo K, ha capito che si poteva lucrare molto di più, sporcandosi meno le mani, con gli strumenti finanziari. In questo modo, incidentalmente, cioè togliendo capitali ai luoghi deputati alla formazione della coscienza di classe, i luoghi di lavoro aggregato, ha anche inferto un colpo, probabilmente mortale anche se questo Harvey non lo dice, alla classe lavoratrice. Comunque sia, mortale o non mortale, si è verificata la finanziarizzazione dell’economia. Da un mondo che funzionava spostando merci e uomini attraverso le frontiere, e che in questo modo permetteva agli uomini di aggregarsi per ottenere parte delle merci che altri (K) possedevano per legge, si è arrivati ad un mondo in cui a spostarsi sono i capitali che permettono agli uomini di lavorare e alle merci di essere prese da questi uomini che lavorano.
Alla base di questo passaggio epocale, che è allo stesso tempo necessario al capitalismo per sopravvivere e ne mina le basi di una possibile stabilità, vi è stato un mutamento della strategia d’azione delle banche verso il denaro, il loro oggetto di lavoro naturale: il denaro ha iniziato ad essere disponibile in maniera, diciamo, più liberale (nelle mani dei soliti noti, si badi bene): “Ma da dove proveniva il denaro eccedente, il surplus di liquidità? Già negli anni novanta la risposta era chiara: da un aumento del grado di leva finanziaria. Di solito le banche concedono prestiti in misura pari, diciamo, a tre volte il valore dei prestiti raccolti, contando sul fatto che i depositanti non preleveranno mai tutto il denaro contemporaneamente; (…). A partire dagli anni novanta le banche hanno alzato il rapporto tra prestiti e depositi, spesso facendosi credito a vicenda, e ritrovandosi così con un livello di indebitamento più elevato rispetto a qualsiasi altro settore dell’economia. Nel 2005 l’indice di leva finanziaria era salito a 30 a 1” (p. 42).
L’aumento della leva finanziaria quindi. L’economia diventa immateriale. Per permettere questo passaggio, che rende molto più difficile l’equilibrio del sistema, perché ovviamente la materia ha una sua solidità e stabilità che rende un sistema che si basa su di essa molto più stabile e solido, si è realizzata nel senso più profondo ed inquietante un sodalizio completo tra stato e finanza, nel senso che lo stato mette in atto politiche volte a permettere alla finanza di fare ciò che preferisce per potere conservare il proprio potere: “Al cuore del sistema del credito si trova un insieme di ordinamenti che costituiscono quello che chiamo il connubio Stato-finanza. Con questo intendo una confluenza di potere statale e finanziario che contraddice la tendenza analitica a considerare lo Stato e il capitale come chiaramente distinguibili l’uno dall’altro” (p. 60). L’esame delle politiche di austerity emanate dal nuovo governo, ci conferma questa indistinguibilità. Il pareggio di bilancio è un mostro in termini sociali, perché ottenuto attraverso un aumento del prelievo fiscale sulle classi più povere ma più numerose, che sole possono garantire una continuità di afflusso alle casse dello stato. La finanziarizzazione dell’economia ha infatti tolto definitivamente l’illusione che la molla dello sviluppo è il ricco lasciato con i suoi soldi, che li rimette in circolo per far star bene tutti.
Questa situazione di disequilibrio ha raggiunto punti di crisi sempre più vicini nel tempo. All’inizio dicevo che la crisi è connaturata al capitalismo, soprattutto per questo capitalismo che non si basa più su di uno schietto e brutale sfruttamento: “A lungo andare la sostituzione del lavoro nei processi di produzione è inevitabilmente deleteria per la redditività, perché il lavoro è la fonte da cui genera ogni ricchezza. La caduta tendenziale del saggio di profitto (che Ricardo aveva individuato) e le crisi che da questa scaturiscono sarebbero dunque endogene al capitalismo stesso e non certo spiegabili in termini di limiti naturali” (p. 104). E’ da queste crisi, cui il capitalismo cerca di reagire in svariati modi, che la classe lavoratrice può sperare di trarre spunto per la ribellione. Nei momenti di frattura può emergere una nuova organizzazione sociale.
Le strade che Harvey indica mi sembrano però un po’ povere, già viste e tentate: e sconfitte. Harvey sostiene, ovviamente, come fanno sempre i marxisti, che le volte precedenti i principi non erano stati applicati nel modo giusto. A dimostrazione dell’atteggiamento di questo studioso di geografia economica e politica basti citare due passi. Richiamandosi ai giovani, che sono l’unica speranza per un movimento risolutivo dal punto di vista della rivoluzione, dice: La prima lezione che dovrà imparare (un movimento rivoluzionario giovanile) è che un capitalismo etico, non basato sullo sfruttamento e socialmente utile, che torni a beneficio di tutti, è impossibile, perché contraddirebbe la natura stessa ed il significato del capitale” (p. 241). Ovviamente il capitalismo, il nemico storico del marxismo, non va bene, va rifiutato, ma non viene proposta nessuna vera struttura sociale alternativa. O meglio, una soluzione viene proposta alcune pagine prima, ma mi sembra ancora più campata in aria della ‘rivoluzione dei giovani’: “E tuttavia bisogna riconoscere anche la necessità assoluta di un movimento rivoluzionario anticapitalista coerente, il cui obiettivo fondamentale deve essere quello di assumere il controllo sociale sulla produzione e la distribuzione delle eccedenze” (p. 230). In altre parole, attraverso i momenti del controllo e della distribuzione, si verrebbe a realizzare il desiderio di Marx, per cui da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità.
Colpisce il fatto che un osservatore tanto attento e scrupoloso cada nella tentazione ecumenica della giustizia che scaturisce naturalmente dalla tecnologia e lascia un po’ deluso il lettore. Ma è oggettivamente difficile recuperare il processo dialettico autentico che vorrebbe lo spirito, o meglio il pensiero, posto a momento di partenza. In un momento storico come questo, in cui si vuole tutto subito (o quasi) è più facile sostenere che, attraverso la prassi, sarà possibile ritornare liberi che non sostenere la necessità di uno stravolgimento delle abitudini di consumo ormai parte quasi genetica dell’essere umano. Sostenere che il capitale è un enigma, che in quanto tale potrà essere risolto, è politicamente più attraente che sostenere la sua natura immanente all’organizzazione sociale. Il prezzo pagato dall’uomo per farlo sopravvivere è l’organizzazione sociale stessa, sempre diversa a seconda del tipo di capitalismo in atto.
Vogliamo rinunciare ad un’organizzazione sociale, per non doverne più pagare il prezzo?
Antonio Donghi, libreria Terzo Mondo