Recensione: Richard Powell, L’uomo di Philadelphia

Richard Powell
L’UOMO DI PHILADELPHIA
Edizioni Marcos Y Marcos, pp. 559, € 20
Traduzione di Raoul Soderini

Quello che fu un successo nell’America del 1956 viene riproposto al lettore italiano con la traduzione del ‘58 fatta da Garzanti; questo non è un dettaglio di poco conto, perché la lettura delle vicende che vedono bisnonna, nonna, madre e figlio coprire più di 100 anni di storia americana, è proprio una lettura d’altri tempi; può piacere o meno, l’importante è sapere a cosa si va incontro.
Scritto in un’epoca poco sensibile al panfemminismo che ammanta di sé l’arte contemporanea, almeno quella di un certo livello, le vite delle tre donne servono solo da preparazione al compimento del progetto che ha portato Margaret dalla fame dell’Irlanda (1857) alle possibilità dell’America; da Margaret nasce Mary e da questa Kate. Kate è la madre di Anthony, il vero protagonista del romanzo. Nato in una situazione sociale lievemente migliorata rispetto a quando Margaret sbarcò nel porto di Philadelphia, la vita di Anthony copre l’arco che va dal ‘21 al ‘56. In questo lasso di tempo si susseguono numerose esperienze che sono la concretizzazione dell’ideale yankee del self made man: fondamentalmente onesto, ma accessibile ai compromessi che inevitabilmente la vita propone a chiunque.
La scrittura, dicevo all’inizio, è d’altri tempi. Dettagliata descrizione di stati d’animo e motivazioni unite a una certa ingenuità degli stessi, fecero di questo romanzo un best seller all’epoca, consentendo all’autore, le cui esperienze si possono leggere tra le righe di quelle di Anthony, di dedicarsi interamente alla scrittura. La critica all’organizzazione sociale della città non porterà mai l’uomo di Philadelphia fuori dai binari che le tre donne che l’hanno portato fin lì avevano tracciato. Insensibile al femminismo ma non a una certa visione matriarcale?

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