Recensione: Umberto Curi, Passione

Umberto Curi
PASSIONE
Edizioni Raffaello Cortina, pp. 222, € 13

Questo piacevolissimo testo del professor Curi è da intendersi come un’indagine filosofica volta a ricostruire il significato che la parola “passione” ha e ha avuto nel contesto della storia della filosofia; in particolare, in riferimento alla filosofia occidentale, la passione è stata, con il progressivo allontanamento storico dalle origini, valutata come qualcosa di intrinsecamente avverso alla stessa possibilità di ottenere la conoscenza: «la riflessione patristica tende a sottolineare che il carattere fondamentale delle passioni è quello di essere perturbationes, movimenti caotici che turbano, fino a distruggerla, la tranquillità del saggio» (p. 12). La strada che ha portato la filosofia dopo l’anno mille a questa posizione può essere fatta iniziare dai testi omerici: «i discorsi pronunciati da Priamo, paradigma di autorità regale, presentato dal poeta come “venerando e terribile”, sono detti mythoi, mentre i discorsi di Ulisse, scaltri e contorti, finalizzati per lo più all’inganno, sono qualificati come logoi. Se ne desume che, in origine, mythos indicava ciò che è effettivamente e storicamente vero, ciò che è stato raccontato, ma proprio per questo nella sua essenza resta perennemente vero, al di là dello scorrere del tempo» (p. 220).
La parola può dunque, in greco, essere indicata da logos e mythos (ci sono altri due termini, rhema ed epos, che in questo contesto non hanno particolare importanza), che hanno una simile funzione rispetto alla verità ma un diverso percorso per raggiungerla. Questa omologia è stata mano a mano eliminata a favore di un’opposizione tra il discorso logico e il discorso mitico. Già in Platone, oltre tre secoli dopo la supposta scrittura dei testi omerici, vi è la teorica opposizione tra i due termini, che pure in pratica, cioè nel discorso filosofico, sono ancora usati entrambi, sottolineando però una maggiore propensione per il mythos in virtù della charis (piacevolezza) unita a questo strumento; la verità raggiunta attraverso il mito è una verità che procura maggior piacere a chi si fa recettore di codesta verità. Questo veloce riassunto può essere argomentato sul testo a partire da questa frase: «la passione è la sorgente e l’alimento imprescindibile dell’autentico filosofare» (p. 13). Senza passione, senza sofferenza, non vi può essere conoscenza che è lo scopo riconosciuto della filosofia: «fra gli assunti più ricorrenti nella cultura greca arcaica e classica, vi è la convinzione secondo la quale la sofferenza (pathos) produce conoscenza (mathos)» (p. 21). «L’amore per la conoscenza (filosofia) è una propensione per una mania che lega il soggetto alla scoperta dei misteri del mondo. L’arte generativa di Socrate, la maieutica, è un’arte pratica, un’arte che genera dolore; Socrate specifica anche di quale peculiare forma di pathos si tratti, questo pathos proprio del filosofo: è il thaumazein. E la filosofia non ha altro principio (arché) che non sia questo» (p. 95). Scopo della filosofia è quindi generare il thauma, una meraviglia che è anche timore, in un’unione di significati che è irrisolvibile in italiano. L’ambivalenza del punto d’arrivo è l’ambivalenza del punto di partenza, ovvero del soggetto che è al contempo oggetto passivo delle passioni e soggetto attivo della conoscenza: «ciò che emerge in primo piano (relativamente alla passione) è l’indicazione di una condizione o di un’esperienza eminentemente caratterizzata dall’essere assoggettati a qualcosa» (p. 6). È lecito interpretare questo essere assoggettati, e la successiva graduale distinzione di significato delle parole utilizzate per spiegare questo stato, come l’inizio del faticoso percorso dell’illuminismo, che vuole condurre l’uomo alla liberazione dai vincoli naturali? La storia di questa separazione, di fatto illegittima anche se ricca di conseguenza positive per l’umanità, non è però il punto d’interesse dell’analisi di Curi. Ciò che più gli interessa stabilire è che «l’ambito delle passioni non è affatto contrapposto a quello della razionalità – né quest’ultima può essere caratterizzata adeguatamente sottolineandone una presunta a-pathia. Ragioni e affetti costituiscono piuttosto un’endiadi, in forza della quale il compimento della razionalità tende a coincidere con il porsi all’ascolto di ciò che la divinità ispira tramite l’infusione delle passioni» (p. 72). Anche per il più famoso allievo di Platone l’opposizione tra passione e razionalità non dovrebbe porsi: «mythos e philosophia, secondo Aristotele, scaturiscono entrambi – e costantemente si alimentano – da ciò che attiene alla sfera del thauma. Non sono dunque forme tra loro contrapposte, non foss’altro che per il comune radicamento nel thaumazein, appunto. […] Ed è proprio perché la poiesis (invenzione, creazione), se ben costituita, vale a dire se rispetta le regole di composizione analiticamente illustrate, è in grado di suscitare il thaumaston, si può dire che essa sia più filosofica e più seria di quanto sia la storia» (pp. 103-104). Dopo Aristotele, che riserva larga parte della sua opera a legare la logica alla filosofia, tutto ciò che è racconto, e quindi anche il mito nel senso etimologico, diviene più storico che scientifico e quindi, in parte, anche illogico. Si arriva quindi alla filosofia patrista citata all’inizio, passando attraverso il mito cristiano che lega la sofferenza non alla conoscenza ma addirittura alla salvezza. In questo senso, il professor Curi espone un’analisi approfondita di due prodotti artistici contemporanei che utilizzano la passione di Cristo come strumento per la messa in atto della funzione della sofferenza. Si parla nel quarto capitolo del libro della Passione di Cristo di Mel Gibson e de Il vangelo secondo Matteo di Pasolini; i due lavori, completamente opposti per metodo e risultati, illustrano con chiarezza come la funzione dell’arte (Pasolini) e la facilità con cui uno scopo didattico marcato e una sottomissione esplicita a canoni spettacolari (Gibson) conducano a risultati opposti.
Rientrando nel finale su un terreno più abituale per la filosofia, il professor Curi parla del filosofo che ha cercato di reintrodurre all’inizio del novecento la tematica dell’affettività, ovvero Martin Heidegger: «Heidegger intende riabilitare la componente affettiva, conferendole una posizione di primo piano all’interno della dinamica esistenziale» (p. 212). Analizzando la retorica di Aristotele, Heidegger sostiene che «è esclusa la possibilità che si dia un “conoscere” scevro di tonalità emotiva, poiché chi comprende lo fa sempre a partire da una certa passione, la quale stabilisce in anticipo le modalità e le direzioni del movimento progettuale» (p. 214). Il veloce commento che il professor Curi fa seguire a queste parole di Heidegger pone in evidenza come il concetto di tonalità emotiva sia centrale in tutto il lavoro di questo filosofo e, forse, nel lavoro di ogni filosofo che voglia salvare l’individuo, e la sua passione, dal progredire apatico, economico, del mondo. È fondamentale per questo che la tonalità emotiva sia connessa alla verità, ma il metodo, ammesso e non concesso che un metodo vi sia, per ottenere questo scopo va ben al di là degli intenti di questo pregevole volumetto.

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