Recensione: Mark Z. Danielewski, Casa di foglie

Mark Z. Danielewski
CASA DI FOGLIE
Edizioni 66thand2nd, pp. 723, € 29,00
traduzione Sara Reggiani e Leonardo Taiuti

Affronto la recensione di questo mastodontico romanzo sfruttando gli apporti critici di Routledge (1992, pp. 324 sgg.) e sopratuttto Moskin (2007, pp. 19 sgg.). Il primo autore, noto critico letterario del New York Times, recentemente deceduto alla bell’età di 97 anni, sosteneva che la possibile sopravvivenza della letteratura in un mondo che si stava rapidamente spostando ad una dimensione prevalentemente visiva stava nella capacità di cogliere questo elemento, farlo proprio e utilizzarlo per mostrare la sua dannosità per il percorso di civilizzazione. Senza entrare nella discussione filosofica seguita a questa presa di posizione (cfr. Bauman, 1999 e Puskin, 2002), diciamo che Danielewski coglie lo spunto principale, lo slittamento sul visivo, e crea un romanzo che si ambienta completamente in una casa irreale che la sua capacità di narratore rende completamente visibile agli occhi del lettore.
Noi che leggiamo le disavventure del famiglia Navidson nella Casa di foglie riusciamo a vedere tutto quello che succede anche se stiamo solo leggendo una storia: diciamo che il significato diventa immagine. Il piccolo corridoio che, inspiegabilmente, compare nella casa ad unire le stanze dei genitori con quella dei figli, diventa il luogo ove succede tutto. La prime quattro spedizioni con i loro tre morti, e poi la più perigliosa e solitaria impresa dello stesso Navidson, sono come proiettate su uno schermo che noi fissiamo affascinati. La fascinazione è ancora maggiore se si pensa che lo schermo è quasi sempre completamente nero, perché Navidson e i suoi sodali entrano in un luogo rischiarato solamente dalla loro luce, dai loro strumenti: è forse il percorso dell’illuminismo (cfr. Adorno, 1941) che è sotteso da questa vicenda? A questa domanda senza risposta Moskin, in anni più recenti, risponde compiendo il primo tentativo di video recensione del libro. Mentre proietta il film La versione di Navidson, Moskin legge e commenta le note che colui che ha ritrovato i taccuini di Zampanò e che ci ha così consentito di entrare più verosimilmente nelle trame recondite di quello che la cultura underground delle periferie americane del primo decennio di questo secolo ha incoronato come il suo riferimento culturale. L’opinione di Moskin, supportata e sottoscritta dalla sorella del signor Truant, il giovane che è stato assorbito maleficamente dal gorgo creato dagli appunti sparsi di Zampanò, e che tra una pastiglia di ecstasy e una bottiglia di bourbon ci accompagna per quasi tutta la vicenda del libro, è che il pulitzer dato a Navidson per la fotografia spetterebbe ex aequo anche a lui, ma per la scrittura. È infatti solo grazie alle note di Truant e ai vari e gustosi personaggi che ruotano sempre più ellittici attorno a lui, dalla bella ed eroticamente polimorfa Tippete al suo sfortunato amico Lude, che noi riusciamo a collocare in una sfera di senso definita la vicenda Navidson.
La casa in Ash Tree Lane è sia il mistero di una coppia in crisi – Navidson e Karen – sia la confusione di una generazione, quella del signor Truant, che si lascia affascinare da una vita senza regole, sempre spinta al limite dell’umana sopravvivenza ma che, alla fine, si fa risucchiare nel grembo oscuro della stanza del signor Zampanò, il grande raccoglitore, perché solo nella sua ossessiva furia accumulatrice pare esserci un senso.
Un senso da decifrare costantemente e costantemente mutevole (cfr. Derrida, 1978).

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