Recensione: Simon Urban, Piano D

Simon Urban
PIANO D
Edizioni Keller, pp. 535, € 22,00
Traduzione Roberta Gado

Incontriamo il commissario Wegener una sera del 2011, mentre osserva interrogativo un corpo penzolare dai tubi di un gasdotto. Il corpo è quello del dottor Hoffmann, un ottantenne morto impiccato, che piano piano scopriremo molto introdotto nelle segrete cose della DDR.
Prima di proseguire, ricordo a chi non avesse memoria che la DDR era la Repubblica Democratica Tedesca, ultimo brandello ad occidente del blocco comunista. La data, 2011, non è un errore, ma il punto saliente del romanzo, che è ambientato in un flusso storico in cui non c’è stata la riunificazione, o meglio, c’è stata ma, visti gli esiti non bene accetti dai dirigenti comunisti, è stata seguita da una rianimazione, ovvero da un ripristino dei confini rispettivi e dalla ricostituzione dell’elemento centrale della vita del paese, ovvero la Stasi. Sempre per chi ha scarsa memoria, o è troppo giovane, la Stasi era il sistema dei servizi segreti del governo della Germania Est, un sistema che teneva tutto sotto controllo, infiltrato in ogni ambiente di lavoro e sociale; ai tempi della stasi, nessuno era al sicuro, non esistevano segreti che non venissero scoperti, o, se voluti celare, che potessero essere scoperti. Il prode Wegener, armato della sua sola volontà di verità, si lancia alla ricerca incontrando però molto presto blocchi e impedimenti che riportano molto realisticamente agli anni della guerra fredda.
Il romanzo si sviluppa come un classico giallo, con un delitto iniziale ed un lento accumularsi di elementi che portano alla soluzione finale; ma è anche un noir, perché rivela molto della mentalità di un popolo, quello della scomparsa DDR, e della psicologia di un personaggio, il commissario Wegener, in bilico tra un amore perso al quale vuole ancora credere e la sua consapevolezza di vivere in un paese in cui è impossibile credere ad alcunché, se non a quello che si vede con i propri occhi: e talvolta nemmeno a quello.

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