Recensione: Massimo Mantellini, Bassa risoluzione

Massimo Mantellini
BASSA RISOLUZIONE
Edizioni Einaudi, pp. 130, € 12,00

La bassa risoluzione cui il titolo fa cenno si lega nel profondo alle alte possibilità che la tecnologia odierna offre. Per essere sintetici, diciamo che è possibile osservare in tutto ciò che ci circonda una reazione individuale agli apparati tecnologici che spinge il sistema generale nella direzione di una bassa risoluzione, ovvero verso l’accontentarsi di risultati largamente al di sotto del livello raggiungibile. Non importa se, teoricamente, ciascuno di noi potrebbe essere in possesso di informazioni più dettagliate, perché praticamente ciascuno di noi si accontenta di avere qualche informazione, poco dettagliata: “Il fotografo che è in me vorrebbe scattare foto bellissime, ma vorrebbe farlo senza saper nulla di tecnica fotografica. Si aspetta che la tecnologia faccia tutto per lui e questo, negli ultimi anni, in fondo è avvenuto” (p. 10). Il punto nodale è, appunto, che la tecnologia fa senza che noi dobbiamo per forza sapere come lo fa, il fare della tecnologia è sufficiente per avere un funzionamento adeguato per quelle che sono le necessità quotidiane delle persone. Il concetto stesso di ciò che è necessario è comunque cambiato rispetto agli anni ’70, che è l’epoca in cui l’autore del libro, e l’autore della recensione al libro, sono cresciuti. In quegli anni luminosi era idea comune che fosse necessarie conoscere a fondo gli argomenti, che andasse dedicato tutto il tempo necessarie per acquisire quella conoscenza, ciascuno in un campo specifico, si diventava specialisti di, mentre oggi le diffusione di sistemi artificiali, tecnologici, per fare le cose, ha avuto come conseguenza che tutti si sentono in dovere di fare tutto, ma questo tutto è ovviamente fatto in maniera non specialistica, una maniera comunque sufficiente a mettere in funzione il sistema, una maniera a bassa risoluzione. Questo passaggio è stato agevolato dalla richiesta di fare questo tutto in modo sempre più veloce; “In rete le cose accadono subito. La filosofia del ‘subito’ è uno degli elementi trainanti dell’economia digitale perché semplicemente aggiunge opzioni che prima non esistevano” (p. 17) La figlia dell’autore è raccontata in più punti all’interno del libro, e in uno di questi si descrive il suo impianto stereo, consistente in un vecchio mac connesso a youtube con due casse di plastica da otto euro, e il padre che le domanda come sente la musica e lei che risponde benissimo. L’opzione che ha avuto di fronte questa ragazza, che poi non è stata nemmeno un’opzione, perché la tecnologia oggi non lascia opzioni, o si aderisce o si è fuori, è stata tra avere questo impianto standard tra i ragazzi della sua età oppure attendere il tempo necessario per acquisire le informazioni relative ad un impianto ad alta fedeltà, oltre che ai soldi per comprarlo. La diversa qualità tra le due opzioni è ovvia, ma gli svantaggi dell’opzione migliore rispetto ai vantaggi della peggiore non lasciano dubbi su quale sarà la scelta della maggioranza delle persone. “Ma perché accade? Perché riduciamo intenzionalmente le aspettative che riserviamo alla tecnologia?” (p. 21). Attenzione all’avverbio però, perché non credo che la rinuncia sia intenzionale, perché la tecnologia, grazie ad un livello di funzionamento mediamente buono, non pone al soggetto il dilemma della scelta, le nostre aspettative sono quelle che sono perché la tecnologia che possiamo usare senza pensare, o almeno pensando poco, è quella che è. Pensare poco è la nostra colpa. Di fronte alla quantità infinita di informazioni disponibili dovremmo essere tutti insieme e ciascuno singolarmente in grado di porre richieste molto specifiche alla tecnologia, e invece ciò non accade; questa caratteristica del sistema, che è emersa nel corso dell’affermarsi di internet come unico strumento depositario della conoscenza di massa, la possiamo vedere incarnata nel funzionamento di Google, il più importante motore di ricerca mondiale, nato come strumento di liberazione generale, una specie di biblioteca di Alessandria del XX secolo, e poi rapidamente degenerata in vetrina pubblicitaria e specchio in cui si riflette la quotidianità superficiale. La mania dell’attualità, il tempo reale come unico criterio di valore, ecco in cosa si è trasformata Google: “Così la traiettoria di Google si è allontanata, prima lentamente, poi a velocità sempre maggiore, dalle sue aspirazioni documentali e archivistiche per occuparsi del tempo reale. E nella società dell’informazione – altro che don’t be evil – è il diavolo fatto e finito, è la superficie al posto della profondità, l’impressione immediata tenuta in conto più del ragionamento” (p. 26).
“A questo punto, mentre quest’accelerazione verso il peggio avviene sotto i nostri occhi, due sole domande sono possibili. Perché noi lettori (ai tempi del web il lettore e lo spettatore si sono fusi in una sola figura senza un nome preciso) guardiamo questa roba? E perché i siti web ce la offrono in così grande quantità?” (p. 33). Queste domande retoriche hanno a che fare con la cultura di massa, e quindi il nostro autore si rifà al maggiore esperto di cultura di massa dello scorso secolo, Umberto Eco: “Per la prima volta un numero considerevole di persone che non sa leggere ha iniziato a scrivere (…). Sono quelli che Umberto Eco in una sintesi un po’ brusca definì un po’ di tempo fa ‘gli imbecilli’. Si tratta di un gruppo di persone numericamente molto vasto (in Italia più che altrove) che è sempre esistito ma la cui visibilità è aumentata nel momento in cui i media digitali sono usciti dalla fase degli iniziati e sono diventati per tutti. (…). Gli imbecilli, come direbbe Umberto Eco, non solo hanno impugnato il microfono nei social network, causando fenomeni imitativi ancora tutti da indagare, ma sono in qualche modo riusciti ad influenzare anche il destino dei più convinti tra i vecchi lettori e, di conseguenza, anche di coloro i quali per quel pubblico confezionavano i prodotti editoriali” (pp. 35-36). La necessità che il prodotto editoriale raggiunga un pubblico vasto, tanto vasto da permettere a chi produce tale prodotto di giustificarsi economicamente nel sistema, ha fatto si che il prodotto medesimo assumesse quella bassa risoluzione che lo rende velocemente assimilabile dal vasto pubblico, quello che non vuole investire tempo e denaro per diventare un fotografo esperto, quello che sente benissimo Robert Wyatt dalle casse di plastica, quello che sui blog contesta i dati epidemiologici sull’uso dei vaccini; “A un certo punto il messaggio semplificatorio ha vinto la battaglia per la nostra attenzione; post-verità ha significato semplicemente, che qualsiasi informazione diventava degna della nostra attenzione a patto che fosse elementare e polarizzata” (pp. 38-39). Particolare attenzione va riservata alla natura elementare e polarizzata dell’informazione, che diventa a bassa risoluzione proprio perché incarna questa due dimensioni fondamentali nella comunicazione odierna.
Ma non è solo sulla comunicazione che si è riversata la bassa risoluzione, anche l’arte ne è stata vittima. Per fare degli esempi, che poi ciascuno potrà esaminare a piacere, si pensi alla bassa risoluzione delle storie vere, diventate dei traini nell’industria editoriale odierna, o all’arte visiva di Bansky, che è diventata arte in base a due caratteristiche antitetiche rispetto all’arte tradizionale, ovvero l’anonimato del suo autore e l’impermamenza delle sue opere (cfr. p. 42).
In Italia, prosegue il nostro autore, l’intero sistema pare essersi adattato alla bassa risoluzione come elemento generale di funzionamento, mentre negli altri paesi esso è riservato ad una fetta di pubblico, minoritaria, perché le linee guida sono comunque direzionate verso l’alta risoluzione; entriamo a questo punto in un discorso quasi antropologico, che ha molto a che vedere con la natura dell’italiano medio, per cui “…la bassa risoluzione, curiosamente, sembra essere una delle soluzioni possibili per non essere travolti dalle macchine, per recuperare il dominio sulle cose della nostra vita, per non affondare di fronte al ricatto tecnologico dell’eterno velocissimo ricambio” (p. 78). Se la bassa risoluzione non fosse altro che una tattica individuale adottata per resistere ad una trasformazione umana generale, che vorrebbe renderci propaggini inconsapevoli degli strumenti tecnici che creiamo? Noi viviamo ormai circondati dalla tecnologia, ma questa tecnologia ci sfugge, ha regole di funzionamento che scavalcano la nostra possibilità di comprensione immediata ed allora abbiamo reagito rinunciando alla necessità di capire, principio guida dell’illuminismo, per accontentarci della necessità di funzionare, principio guida di un vitalismo un po’ reazionario. L’autore del libro vuole condurci a dubitare che questo stato di cose sia frutto di una libera scelta (cfr. p. 108) o, perlomeno, a pensare che sia possibile compiere una scelta diversa, ad alta risoluzione.

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