Recensione: Ferruccio Capelli, Il futuro addosso

Ferruccio Capelli
IL FUTURO ADDOSSO
Edizioni Guerini, pp. 206, € 19,50

Il libro di Ferruccio Capelli cerca di portare un po’ di chiarezza sul tema quanto mai attuale del populismo e dei sovranismi, che hanno invaso il discorso politico più recente. Lo fa adottando una modalità sia storica sia sociale, ovvero tracciando il percorso che ha portato all’affermarsi di questo approccio alla politica e cercando di individuare le motivazioni sociali che ne giustificano il mantenimento.
Il nostro parte dal tema della produzione: “La produzione è stata segnata immediatamente, fin dal loro primo apparire delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (p. 25). In altre parole, il tipo di lavoro svolto dalle persone è radicalmente cambiato dalla fine degli anni ’70, provocando una cesura generazionale radicale. Laddove erano esistite classi sociali che conferivano un potere di rappresentanza ad istituzioni ad hoc costituite, i partiti, compaiono gruppi di individui che cercano di porsi in diretto contatto con i politici. “In un mondo digitalizzato non ci sono barriere tra emittente e ricevente” (p. 29). Si realizza la disintermediazione della politica.
Lo spazio pubblico nei trent’anni del secondo dopoguerra è radicalmente diverso dallo spazio pubblico odierno, tutto dominato da espressioni non ragionate delle individualità forti, che per affermare se stesse tendono a trascurare la realtà e la complessità dei fatti. In questa situazione “l’essenziale funzione democratica dei partiti, la selezione degli eletti, è compromessa” (p. 37). Una selezione presuppone un ordine gerarchico, un ordine che si scontra con l’assenza di barriere di cui sopra. Per una parte, più o meno ampia, della popolazione ciò non è più ritenuto valido; e come accade in ogni sistema complesso, le aspettative di più corto respiro sono le prime che vengono attuate, costringendo anche le altre, quelle che abbracciano idealità più lontane, ad adeguarsi.
In questa situazione politica, specificamente per l’Italia, che Habermas sosteneva essere un luogo ove vengono anticipate prospettive che si attueranno in altri paesi, iniziano ad emergere negli anni 80/90 due forme di populismo, quello della Lega Nord e quello di Forza Italia; queste forze, che, ricordiamolo, nascono su posizioni antitetiche, sono comunque accomunabili dall’individuazione di un nemico cui rivolgere la rabbia della folla: i meridionali per la lega e i comunisti per forza italia. L’individuazione del nemico consente al politico di sviluppare un discorso non argomentativo, ovvero un discorso che non spiega niente, ma che consente all’individuo di scaricarsi delle responsabilità. I leader populisti, a partire da Hitler, riprendono le affermazioni e gli studi di un sociologo francese, Gustave Le Bon, che nel 1895 nel suo studio sulla psicologia delle masse individuò la figura del meneur de foule. Costui si rivolge alle masse in maniera emotiva, le incita e le solleva indicando uno scopo immediato, semplice e univoco. I populismi si assomigliano tutti, indipendentemente dal versante politico verso cui propendono. Possiamo fare rientrare anche l’attuale presidente degli Stati Uniti all’interno del discorso di Capelli: “… Trump sembra proprio riecheggiare i suggerimenti di Gustave Le Bon al meneur de foule: per prendere in mano e guidare la folla bisogna affermare, ripetere e non argomentare mai” (p. 54).
A monte di tutto bisogna però riconoscere il parziale fallimento delle regole democratiche; Il grosso problema della democrazia attuale è che “si sta trasformando in un raffinato sistema di legittimazione della disuguaglianza”( p. 65). Solo in questa luce è possibile collocare il populismo. La comunicazione ha preso il posto della rappresentanza solo perché la rappresentanza non è stata in grado di svolgere i compiti per i quali era stata creata. Il politico odierno non cerca più di individuare il bisogno reale del suo elettorato, cercando bensì di acquisire potere attraverso la comunicazione e, tramite tale potere, portare avanti un proprio ideale di governo che comporta la definizione dei bisogni (cfr. p. 57-58).
Andiamo quindi a svolgere uno studio storico della democrazia, secondo l’esposizione di Capelli. La democrazia si è evoluta in tre fasi. C’è stata una prima fase che possiamo definire elitaria, con il diritto di voto riservato per censo; ad essa segue una fase più propriamente democratica, con la creazione di partiti che cercano di rappresentare determinate classi sociali e ideali civili, per finire con l’attuale, “nella quale ci stiamo immergendo, della ‘democrazia disintermediata’ ovvero dello scontro tra i diversi leader politici che interagiscono, tramite il sistema mediatico, con i cittadini ridotti a folla disorganizzata. La rappresentanza è ridotta ad identificazione con il leader: gli altri canali di scorrimento della volontà dei cittadini sono logorati o ostruiti” (p. 62).
La fine degli anni ’70 ha visto iniziare a vacillare il modello democratico, inteso come sistema di riequilibrio delle sperequazioni sociali. La lotta tra liberali e sinistra aveva visto un lento guadagnare posizioni da parte della sinistra; a questo punto, con Margaret Teatcher, si affacciano sulla scena politica i neoliberali. La loro comparsa segna la fine dell’umanesimo, poiché il loro unico ideale è quello economico. Se una destra classica prevedeva comunque la ridistribuzione, parziale, del reddito, per i neoliberali, confluiti nella classe governativa globalizzata (quelli di Strasburgo, per usare le parole del governo) ciò che conta è solo il successo individuale, che si presume derivi dalle reali capacità del soggetto e non, come dimostrano una serie infinita di studi, dalla capacità del sistema di mantenere ed incrementare le differenze di censo di partenza. Il completo ripudio del presupposto umanista, che ha guidato gli ultimi tre secoli dello sviluppo dell’occidente, consegna i cittadini alla loro solitudine, isolandoli dalla comunità.
La riforma neoliberale ha visto opposizioni di sinistra succedersi negli anni; ma nessuna di questa ha avuto risultati duraturi, la sperequazione nella distribuzione della ricchezza è rimasta e si è insinuata all’interno degli stessi stati avanzati. Ecco allora che la rivoluzione ha scelto una via inaspettata. I movimenti sovranisti sono la risposta popolare alle strategie neoliberali di conduzione dell’economia. Ma questa risposta non è volta al futuro, bensì al passato, con una ricerca di un ipotetico e irreale bel tempo andato (cfr. p. 103 sgg). Una politica i cui sostenitori guardano con rimpianto al passato smette di essere politica, perché incapace di proporre un programma trasformativo della polis. E’ la concezione del futuro che condiziona le nostre scelte, non la nostra fedeltà al passato.
La seconda parte del libro si apre indicando tre momenti che esemplificano il potere emergente del populismo: La Brexit, l’elezione di Trump e la maggioranza politica in Italia. Queste tre situazioni si accomunano per il tipo di discorso che il leader propone alla folla. Il bene del popolo, a parole perseguito dai rappresentanti di questi tre aspetti, è un bene che non riguarda la totalità ma solo una fetta specifica, quella del popolo buono, il popolo che si identifica con i valori sostenuti dai leader. In questo senso è chiara la perdita del discorso universalista che sottendeva l’umanesimo. Le paure, l’aumento dell’insicurezza economica in definitiva, hanno cambiato lo stato d’animo della popolazione: “il populismo è un umore, uno stile, una mentalità che, nelle sue molteplici espressioni, ripropone la centralità del popolo, esalta la funzione del leader e si definisce attraverso l’invenzione e l’identificazione del nemico” (p. 173). Attraverso l’identificazione del nemico, il populismo è in grado di ricollocare le masse, o meglio, la folla di rifermento, all’interno di una narrazione che, come ogni narrazione, allude ad una destinazione. Poco importa se tale destinazione è irreale o irraggiungibile, ciò che conta è che ci si possa credere ed agire in tale prospettiva. Privi di idealità a lungo raggio e ad ampio spettro, i populisti offrono comunque una risposta alle paure diffuse. Possiamo intendere il populismo come un farmaco e, secondo l’etimo greco, intenderlo aperto a risultati positivi o negativi: dipende solo dalla quantità somministrata.
La conclusione di tutto questo discorso sta nel riconoscere i motivi del successo populista; il populismo ha il merito di occuparsi e di difendere il suo popolo: esso non accetta a priori gli argomenti e gli interessi dell’iperclasse globale. Qui sta la molla essenziale della sua affermazione: esso rompe con la vulgata neoliberale e propone un’inversione, apparente secondo noi, dell’ordine delle priorità (p. 189).
Per concludere, l’autore sostiene che il rischio maggiore implicato dalla perdita di una narrazione globale, di un progetto per tutti, che ogni populismo porta con sé, sta nella perdita dell’egemonia globale che l’occidente ha esercitato sul mondo per più di tre secoli (cfr. pp.193-195).
Il futuro che ci sta per cadere addosso potrebbe non essere per niente simile al passato che conosciamo.

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