Recensione: Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto

volti-badiou-ricerca-realta-perduta-1Alain Badiou
ALLA RICERCA DEL REALE PERDUTO
Edizioni Mimesis, pp. 52, € 8,00
Traduzione Giovanbattista Tusa

Trovare il Reale, la sua natura intima, è uno dei punti più spinosi della storia della filosofia. Tolti i primi greci, tutti I filosofi che sono seguiti a Socrate hanno cercato di definire le modalità per giungere a questo benedetto reale. Esso è però sempre sfuggito. I motivi di ciò sono legati alle possibilità effettivi dell’uomo di agire in vista di questo scopo. L’uomo può infatti attingere il reale o immediatamente, per via sensibile, o mediatamente, per via concettuale; entrambe queste strade però, supponendo di poter inglobare l’opposto, si rivelano non fondate.Nel corso dei secoli è venuta affermandosi una nuova modalità di lettura del reale, la modalità economica, che pare aver messo tutti d’accordo: tutto ciò che ha una necessità economica è reale; “Si direbbe che è all’economia che è affidato il sapere del reale. E’ essa che sa” (p. 9).
Il reale che ci viene presentato dall’economia è un reale intimidatorio, pieno di costrizioni e vincoli, niente affatto costruito a misura d’uomo; “ciò che l’economia considerata come discorso del reale dice, prevede, non ha mai fatto altro che validare il carattere intimidatorio di questo cosiddetto reale” (p. 9). Il discorso economicista sul reale è in fondo una presa di posizione idealista. Si parte cioè da un concetto – il reale è ciò che è economicamente calcolabile – e ci si comporta come se questa frase fosse vera in assoluto, senza la necessità di una prova non-ideale. Le vie per opporsi a questo razionalismo disumano sono state molte – prima Pascal, poi Kiekegaard per finire con gli esistenzialisti – ma tutte, cercando di sostituire a questa idea un reale immediato sono cadute nella trappola dell’idealismo. Esso infatti costruisce nelle persone una struttura ideale che le costringe a formulare pensieri in accordo ai suoi presupposti. Così la scelta di Pascal, l’angoscia di Kiekegaard e la libertà di Sartre non si rivelano essere altro che nuove forme attraverso le quali l’economia si conferma; basti pensare alla rilevanza che tutte queste filosofie pongono sul calcolo individuale costi-benefici delle scelte. La stessa psicoanalisi “si radica esplicitamente in questa tradizione esistenziale” (p. 11).
Il reale si nasconde dunque dietro la cortina dell’economia? Non è proprio così. Per essere precisi, dobbiamo dire che il reale si manifesta nella divisione del reale manifesto. Anche il reale ingannevole dell’economia ha infatti una sua realtà, costrittiva ma pur sempre tale. In quest’ottica lo scandalo mediatico occupa una posizione particolare, in quanto consente di scorgere questa dinamica all’opera. Quando viene denunciato uno scandalo di corruzione, la reazione è come se fosse successa una cosa eccezionale, che di per sé contraddice le regole più intime del sistema. Secondo Badiou non è così; la corruzione è insita nella natura del mondo ridotto all’economia: “Perché se guadagnare più denaro possibile è la norma, diventerà difficile dire che non è vero che tutti i mezzi sono buoni” (p. 13).
“E’ per questo necessario che di tanto in tanto ci sia uno scandalo, non certamente come disvelamento del reale, ma come messa in scena di un pezzetto di reale stesso nel ruolo di un’eccezione del reale” (pp. 13-14). L’elemento irreale – l’eccezionalità della corruzione – è presentato come il reale e a questa rappresentazione si conforma la modalità generale di percezione del reale. “laddove c’è molto denaro, c’è corruzione, perché quando il denaro circola in maniera troppo abbondante, non assicura la fluidità richiesta da questa circolazione che esondando abbondantemente da ogni lato” (p. 15).
“Né l’arroganza del concetto, né la provocazione dello scandalo portano con sé una rivelazione del reale. Bisogna muoversi altrimenti. Bisogna avanzare lateralmente come i granchi, o costruire delle diagonali, per approcciare il reale in un processo ogni volta singolare” (p. 15). In questa frase c’è il cuore dell’analisi di Badiou, ovvero la necessaria singolarità, individualità di ogni analisi. Non esiste uno schema predefinito ed immutabile da applicare allo studio del reale, ma ogniqualvolta lo vogliamo cogliere dobbiamo disporci verso un lavoro di divisione che, in quanto tale, può anche risultare cruento. Il reale contenuto nella realtà economica può essere lesivo di chi vede solo la realtà dell’economia. Il tentativo di Badiou consiste nel mostrare, in forma discorsiva, la possibilità sia di resistere alla finzione del reale sia di arrivare al reale.
Il primo passo che facciamo parte allora da un aneddoto della storia del teatro. Moliere morì in scena mentre recitava il malato immaginario; a distanza di secoli la cosa può essere letta come una beffa del destino, ma può anche far pensare al fatto che “Il reale è ciò che smaschera la recitazione” (p. 19). La malattia di Moliere, la tubercolosi, si rivela sul palco ove Moliere inscena il comportamento di un finto malato. Vedere Moliere recitare non fornisce alcun elemento per comprendere la realtà di Moliere; solo nel momento in cui Moliere esce dai panni del personaggio, e muore, ecco che emerge la realtà: “Si potrebbe dire (…) che tutto il reale si rivela nel crollo di una finzione. Equivarrebbe a dire che non esiste un accesso diretto e intuitivo al reale, e d’altronde neppure un accesso puramente concettuale, ma piuttosto la necessità indiretta, che è nel crollo di una finzione, che il reale si manifesti” (p. 20).
La maschera che Moliere indossa al momento della sua morte è reale, benché falsa: “Non esiste un reale che si tratterebbe di epurare da ciò che non è reale, in quanto qualsiasi accesso ad esso è immediatamente, e necessariamente, una divisione, non soltanto del reale e della finzione, ma del reale stesso, visto che esiste un reale della finzione. E’ l’atto di questa divisione, per la quale la maschera di parvenza è strappata e al tempo stesso identificata, che descriviamo come il processo di accesso al reale” (p. 21). Ne consegue, dialetticamente, che il reale è un processo. Non esiste un punto del reale che sia estraneo alla dinamica processuale. Il reale non è un eden immodificabile.
Per accedere al reale è dunque necessario uno strappo; fuor di metafora, qual è la maschera che dobbiamo strappare al capitalismo perché riveli la sua natura economica? “Allora, sono spiacente di dover dire che la parvenza contemporanea del reale capitalista è la democrazia. E’ la sua maschera. (…) Fintantoché questa rappresentazione prosegue ed un vasto pubblico l’apprezza, il reale del capitalismo, ossia la capacità di dividerlo, di costringerlo a una scissione di se stesso che sia attiva e che prometta la sua scomparsa, la sua distruzione, rimane politicamente inaccessibile” (p. 22). La democrazia, il frutto di secoli di sanguinose lotte contro un’organizzazione sociale che non tiene in nessun conto il destino del singolo, è la maschera che il capitalismo ha indossato. Opporsi a questo mascheramento socialmente accettato non è facile, perché chiede scelte individuali che verranno, sia dai sostenitori della visione economica sia dai sostenitori di un approccio umano alla realtà, tacciate o di utopismo o di disumanità, ma tant’è; non esiste un modo incruento per effettuare uno strappo.
“Dato che il reale è ciò che si scopre sempre al prezzo del fatto che la parvenza che ci soggioga sia strappata via, come se tale parvenza facesse parte della presentazione stessa del reale nascosto, ho proposto di chiamare ‘evento’ questo atto di strappare via la maschera, perché non è qualcosa di interno alla rappresentazione stessa. Piuttosto giunge da altrove, un altrove interiore, se così possiamo dire, anche se questo altrove è difficilmente situabile, e sfortunatamente spesso improbabile” (p. 23). Il reale proviene (e-vento) da un luogo che non è nella rappresentazione. L’evento è un qualcosa che si impone al reale ingannevole per affermare il reale nascosto. Due cose vanno sottolineate: “… esiste necessariamente una certa dose di violenza nell’accesso al reale” (p. 24), è la prima. In secondo luogo questo evento non è implicato dal falso reale. Questo falso è di fatto vero, in quanto creduto dall’ideologia economica; occorre allora che il singolo si faccia portatore della violenza necessaria all’evento. Ogni organizzazione sovraindividuale che voglia farsi portatrice dell’evento ricadrà nell’ideologia e impedirà l’analisi singolare della realtà. Ad un’interpretazione non ideologica delle parole di Badiou una rivoluzione sociale di massa è impossibile; questa analisi non è condivisa dal nostro che invece sostiene che “tutto questo non può avvenire che attraverso una divisione costitutiva di carattere politico” (p. 23). Va però osservato che la violenza dello strappo è necessaria solo se tale atto viene compiuto da una moltitudine; se a tale atto si limita il singolo, che è il punto d’origine dell’evento improbabile di cui sopra, allora la violenza diviene sicuramente minore. Il punto è che una tale mossa individuale non garantisce né l’eguaglianza né la felicità per tutti, che è lo scopo non dichiarato di qualunque comunista si pronunci sulla filosofia. L’aneddoto di Moliere, negli intenti di Badiou, mostra come il reale sia unito al non reale; solo attraverso un avvenimento che denunci la situazione in cui versa il non reale è possibile scorgere il reale.
Prima di proseguire nell’analisi di questo breve ma densissimo testo di Badiou, mi preme portare l’attenzione su una mancanza di chiarezza, dovuta ad una mancata definizione originaria, che è insita nel testo. Per il nostro autore la definizione del reale è funzionale ad una prassi politica; ma, come sarà chiaro nel prosieguo, il momento gnoseologico (come si scopre il reale) ed il momento politico (come si agisce nel reale) non sono collegati di necessita, ma per pura dichiarazione di principio, O meglio, i due momenti sono collegati di necessità solo per il singolo: se io scopro come si arriva al reale, io posso stabilire mie regole di comportamento verso il reale. Sul piano collettivo, politico, ciò non vale più, soprattutto in un’epoca soggettivista come la nostra; questa impostazione varrebbe solo se le categorie gnoseologiche fossero applicate nell’identico modo da soggetti identici. Ciò poteva essere quasi vero in un’epoca passata, quella che ha dato origine al marxismo. Un’epoca caratterizzata da un’ampia scarsità di oggetti di consumo che determinava un approccio molto più omogeneo al reale. Oggi non è più così, come mi pare chiaro osservando la confusione che domina nella politica, sia di destra sia di sinistra.
Vediamo comunque come Badiou porta avanti il suo discorso. La seconda fase inizia con la definizione di reale. Secondo Badiou, che riprende Lacan, “il reale è l’impasse della formalizzazione” (p. 27). Il reale, che è un costante divenire, non può essere formalizzato perché esso è condizione della formalizzazione, che serve a bloccare un singolo elemento del reale. Se non c’è un reale che la trascende non c’è scopo in una formalizzazione: l’evidenza basterebbe a se stessa. Il reale è ciò che garantisce che la formalizzazione non sia mai definitiva e che quindi permette il proseguire del suo proprio dispiegamento ai nostri occhi. Per esemplificare questa situazione Badiou prende la matematica e il concetto di infinito. L’infinito, che è una nozione non calcolabile, è ciò che consente la calcolabilità dei numeri. Si può dire che l’infinito è un reale che sfugge costantemente alla definizione di reale. “Si potrebbe dunque asserire che si giunge al reale non attraverso l’uso della formalizzazione – perché esso ne è per l’appunto l’impasse – ma piuttosto quando si esplora ciò che è impossibile per questa formalizzazione” (p. 28).
In questa luce, compito dell’uomo è il costante allargamento del campo del reale. Benché il reale sia sconosciuto, se ne può avere un’intuizione che non può essere formalizzata: come vedremo dopo, secondo Badiou questa intuizione è offerta all’uomo dalla poesia. Tutto sta a decidere se questa intuizione possa restare individuale o debba essere condivisa; la sua condivisione presenta tutti i limiti che la storia dei movimenti di rivoluzione rispetto all’esistente può mostrare; l’intuizione individuale invece, a mio parere, conserva una sua validità ab-soluta, cioè libera da qualunque condizione contingente abbia a presentarsi. Badiou invece, fedele all’ideale comunista, sostiene la visione marxista: “Marx pensa che, da un punto di vista strategico, se si considera tutta la storia dell’umanità fino ai nostri giorni, è necessario dire che, essendo l’impossibile proprio della politica prescritto da ciò che sta fuori dello Stato, la realizzazione reale della politica è il processo di scomparsa dello stato. Ed è lì che si trova, con il nome di comunismo, l’infinito proprio della politica” (p. 29). La politica quindi come luogo di infinita attuazione/non attuazione del comunismo.
Prima però di queste considerazione politiche, il discorso di Badiou si basa su un discorso gnoseologico: ovvero, com’è possibile arrivare alla realtà? Anzi, è possibile arrivare al reale? Una volta definito questo punto, sarà possibile derivarne le necessarie conseguenze politiche. Per rispondere a questa domanda Bodieu utilizza una poesia di Pasolini, Le ceneri di Gramsci.
Prima di iniziare, chiariamo che la poesia è, insieme alla matematica, il mezzo preferenziale per l’individuazione dell’impasse della formalizzazione che definisce il reale. Però, mentre per la matematica il discorso è oggettivo, scientifico, per la poesia il discorso si fa più soggettivo, impressionista. Possiamo dire che con la poesia si arriva a cogliere il reale con i mezzi del soggetto puro, mentre la matematica offre al soggetto un reale attingibile solo attraverso strumenti. “Con Pasolini entriamo in un altro approccio al reale, che è la soggettivazione propriamente detta” (p. 35). Andiamo ora alla poesia.
Il cimitero in cui Gramsci è stato sepolto è un luogo sconsacrato, a Roma, in cui sono stati seppelliti vari personaggi storici noti per il loro rifiuto della religione ufficiale, ma, per Bodieu, noti anche per la loro completa accettazione della vera religione, che è la ricerca del reale nascosto: “Il reale non è affatto ciò che struttura la nostra vita immediata, ma ne è al contrario, come ha intravisto in maniera ammirabile Freud, il remoto segreto” (p. 38). Il reale di cui Gramsci andava alla ricerca, il reale della rivoluzione proletaria che pareva garantito dalle leggi della storia, è svanito. Ora, di fronte alle sue ceneri raccolte in un cimitero ‘speciale’, Pasolini si domanda se abbia ancora senso spendere tempo ed energie nella ricerca del reale, se questo reale non sia stato ormai cancellato dalla fine della storia. Per Pasolini, con anni di anticipo su Fukuyama, siamo infatti giunti alla fine della storia e Gramsci, sepolto in disparte su terra sconsacrata, è la prova visibile di questo stato di cose.
“Per Pasolini la caratteristica del nostro mondo, diciamo del mondo occidentale, è di essere e di voler essere al riparo da qualsiasi reale” (p. 39). Tenersi al riparo dal reale consente a tutti noi, chi più chi meno, di godere del falso reale offerto dal commercio. In un modo molto simile a quello che sosterrà Debord anni dopo, “Pasolini chiamerà questa disposizione soggettiva ‘sostituire la vita con la sopravvivenza” (p. 40). La vita eroica che proponeva la storia, quando la storia esisteva, è ormai andata: l’eroismo non accetta il consumo. Non essendoci più un programma politico volto allo svelamento del reale, al singolo non resta altro che ricavare uno spazio soggettivo in cui accettare passivamente la propria umile corruzione: “prendere posto nell’esistenza significa gestire, in una maniera o nell’altra, l’umile corruzione” (p. 44). La fine della storia toglie al singolo ogni motivazione.
Per ritrovare la motivazione è necessario dissociare storia e politica. Il destino della storia non è l’attuazione dell’uguaglianza tra gli uomini, tutt’altro. La storia deve assumere un diverso indirizzo attraverso la politica. L’idea di destino storico da compiersi ha un che di fideistico, che mal si associa all’approccio scientifico proprio dell’illuminismo. La storia dei vari tentativi di attuare il comunismo, avendo celato le molte disumanità che questi tentativi hanno portato con sé, dimostra, secondo Badiou, l’errore insito nella concezione del primo comunismo. L’accento posto sulla dimensione negativa, che il sistema capitalista porta con sé, e sulla necessita di distruggerla, sicuri che poi la necessità storica avrebbe portato allo sviluppo delle potenzialità positive dell’uomo, si è rivelata falsa: “Se è la storia che deve partorire un mondo politico nuovo e salvifico, non c’è nulla di straordinario nel fatto che le distruzioni siano proporzionali a tale storia” (p. 49). Il punto però è proprio questo: tale storia non esiste. Secondo Badiou è quindi necessario “rimpiazzare questa dialettica negativa con una dialettica affermativa” (p. 50). Una dialettica positiva che porti la ragione ad elaborare il lutto della perdita della storicità benigna. La vecchia impostazione comunista che vede nel versante negativo della dialettica il motore della trasformazione porta inevitabilmente con sé una dimensione pessimista. Rivendicando invece la necessità di un accesso al reale come punto di partenza di una dialettica positiva, Badiou è convinto di riuscire ad allontanare lo spettro della melanconia che aleggia nella produzione poetica di Pasolini e in molti dei teorici della sinistra più radicale.
A mio pare questa malinconia è legata a filo doppio alla prospettiva politica universalista che quasi inevitabilmente investe ogni proposta di sinistra. Guardare in faccia il reale, vedere come vanno le cose, e confrontarlo con le possibilità offerte dalla ragione più evoluta porta inevitabilmente un certo scoraggiamento, se si resta a livello generale. A livello individuale invece va proprio all’opposto. Chi riesce a scorgere il reale dietro al velo della volgarizzazione economica lo vede con molta più chiarezza che non ai tempi di Marx. Individualmente quindi c’è stato un sicuro progresso. Lo stesso Badiou ha comunque l’accortezza di proporre una politica egualitaria limitata a piccoli gruppi, gli unici forse in grado di fornire quella lettura unitaria del reale che garantisce una prassi univoca e giusta. Vi è solo una forma di resistenza nei confronti del capitalismo, non più l’utopia della rivoluzione. Ma è già tanto, se si è sicuri, come lo è Badiou, che il reale porti con sé la verità. Raggiungere il reale è quindi l’unica, contemporanea, possibilità di rivoluzione.
Per l’individuo, ovviamente.

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