Recensione, Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi

Recensione

Marco Revelli, Populismo 2.0
Einaudi, pp. 155, euro 12

Si sente parlare da più parti di populismo con una sicumera che lascia spesso allibiti. In effetti il populismo è un fenomeno che si rinnova ciclicamente e in questo rinnovamento cambia fisionomia, diventando molto difficile da definire. Più che denigrarlo, credo sia importante capirlo. In libro di Revelli è in questo senso uno strumento utilissimo che può essere utilizzato anche per allargare il discorso su fenomeni che investono l’intera nostra concezione di democrazia.

Il fenomeno del populismo, come dice in copertina una frase dell’autore, è una malattia delle democrazie troppo giovani o di quelle troppo vecchie. Revelli, con grande stile ed assoluta padronanza dell’argomento, fa un breve escursus storico del fenomeno, dal primo presidente americano anti establishment della storia (Jackson, 1828-1836) fino a Trump. Ma non si limita a ripetere i luoghi comuni degli organi d’informazione che hanno urlato allibiti ed inorriditi all’elezione del magnate americano. Revelli ci offre dei dati per capire a livello di distribuzione geografica il perché di un fenomeno. Ed il fenomeno americano si dimostra in linea con il fenomeno inglese della Brexit e con quello francese della Le Pen. Tutte queste nuove forme di populismo – ove il populismo è “un’ideologia che considera la società fondamentalmente separata in due gruppi omogenei e antagonistici, il ‘popolo puro’ versus ‘l’elite corrotta’, e che sostiene che la politica dovrebbe essere l’espressione della volontè generale del popolo (p. 15)” – traggono forza e sostegno dalle zone depresse dei rispettivi paesi. E’ questo significa che il populismo è il frutto di una democrazia che non funziona, che non assicura a tutti i membri che la compongono uguali possibilità di accedere ad una vita degna di questo nome. Va però osservato anche che ogni paese ha caratteristiche peculiari, che rendono difficilmente sovrapponibili i fenomeni. L’Italia in questo senso è stata il precursore del fenomeno, con Silvio Berlusconi a capo di un movimento che era assolutamente populista, seguito al termine del ventennio dai grillini e da Matteo Renzi che, prima della batosta del referendum, ha provato a portare avanti ‘ da sinistra’ un movimento anti establishment. Va però notato che Renzi si può definire populista solo per la dichiarata volontà di rinnovamento. Revelli sorvola sulla lega delle origini, anch’essa connotabile come forza populista, anche se di necessità molto più limitata in ampiezza vista la specificità geografica. Anzi, la lega esprimeva naturlich i tre aspetti centrali del populismo. In primis il costante riferimento al popolo come punto di partenza e d’arrivo di ogni discorso; poi l’idea del tradimento compiuto,dalle classi alte, dirigenziali, nei confronti dei poveri ovvero del popolo stesso. Infine c’era il mito del rovesciamento, della supposta capacità rivoluzionaria di questo movimento. E’ sufficiente un occhio minimamente critico alla storia per capire come il populismo 2.0, non solo italiano, tradisca costantemente questi principi.

Al di là di tutti gli interessantissimi dati che riporta Revelli, e che consigliamo a tutti di leggere, per capire qualcosa di quello che sta succedendo, l’elemento che il nostro pone in evidenza è quello che era già stato posto sotto i riflettori da Piketty nel suo monumentale lavoro. Ovvero che negli ultimi trent’anni si è assistito, senza che le forze politiche di sinistra riuscissero a mettere un argine al fenomeno, ad una polarizzazione dei redditi, con sempre meno persone molto più ricche e sempre più persone molto più povere. Questo è il vero motivo del successo dei vari movimenti populisti che, con la loro disorganicità, rischiano di cogliere molte più esigenze reali delle persone che non i vecchi partiti che ancora sopravvivono aggrappati a un’idea. L’incapacità dei vecchi partiti si abbina all’inesperienza e grossolanità dei nuovi e questo determina, vedi il caso francese, il loro essere relegati in posizioni di secondo piano grazie a confluenze di voti. E’ anche ciò che determina la larga disaffezione alla politica. Ma è anche ciò che ha determinato la vittoria di Trump. Per quanto potranno reggere le deboli democrazie europee, prima di seguire l’esempio d’oltre oceano? E in Italia, per quanto i residui del PCI di Berlinguer potranno resistere alla forza popolare dei grillini?  Domande senza risposta certa, in questa democrazia 2.0.

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