Recensione: Stefani Boni, Homo comfort, Eleuthera

Stefani Boni, Homo comfort

Eleuthera, p. 208, euro 14

Siamo sicuramente poco abituati a riflettere su quanto il comfort diffuso che caratterizza la nostra società influenzi il nostro rapporto con la realtà. Stefano Boni sostiene, a ragione, che questo stato di cose è specifico degli ultimi secoli di sviluppo, ancor più degli ultimi decenni. Per grandi linee possiamo dire che l’umanità è passata da una situazione di poca comodità per tutti ad una di molta comodità per quasi tutti, passando per una lunga fase di molta comodità per pochi. In questa fase intermedia le comodità erano razionate, visto che il rapporto dell’uomo con la realtà era sì mediato dalla tecnologia ma da una tecnologia elementare, poco in grado di alleviare le scomodità che naturalmente conseguono dall’asprezza del mondo. Le poche comodità disponibile erano diffuse ai vertici della società, secondo principi rigidamente gerarchici; il potere fruire delle comodità era simbolo di censo elevato. Gradualmente la produzione industriale ha generalizzato la possibilità di accedere alle comodità; ma, questo passaggio è stato realizzato in modo tale da mantenere differenze all’interno dei diversi gruppi, a seconda delle comodità cui possono accedere: “I regimi di produzione contemporanea richiedono di far proliferare le sensazioni di scomodità: mirano a scovare piccoli fastidi, anche quelli più insignificanti, rimasti negli angoli reconditi della quotidianità. Queste scomodità vengono presentate come povertà o inadeguatezza sociale” (p. 52). Attraverso la pubblicità, le comodità vengono presentate come beni da desiderare e l’accesso ad esse come il raggiungimento di uno status. E’ quindi chiaro che la divisione sociale in classi, una volta visibile nel censo e nei modi, è oggi più invisibile, affidandosi in larga parte anche al tipo di comodità cui si può accedere. In questo dato di fatto è nascosto un ben preciso significato politico, se riflettiamo un attimo sul fatto che ogni governo, in ogni stato del mondo civilizzato, basa la sua politica sulla promessa esplicita di un allargamento della possibilità di fruire di comodità, intese come beni di consumo: “Il consenso passivo della stragrande maggioranza della popolazione va spiegato non solo in termini ideologici, ma anche esperienziali: questo testo esamina il contributo offerto dalla diffusione di uno stare-nel-mondo “comodo” al mantenimento dell’ordine stabilito” (p. 11).

La quasi totalità del libro, tranne i primi due capitoli, è dedicata alla presentazione fenomenologica di esempi che asseverano la tesi di fondo, ovvero che a fianco di una maggiore comodità del vivere vi è stata una maggiore passività ed inconsapevolezza dello stesso vivere: “Il comfort come pratica del sé offre un godimento che assoggetta, nel senso che genera soggettività rendendole più fragili politicamente, in conseguenza all’individualismo e alla perdita di autonomia” (p. 43). Tutti questi esempi rientrano appieno nell’intento di fornire una lettura immediata del fenomeno dell’Homo comfort, ovvero una lettura che non vada alla ricerca di cause simboliche o sociologiche di detto comportamento, ma si limiti al suo riconoscimento; se questo, da un lato, può rappresentare un punto di forza, vista la chiarezza e linearità dell’esposizione, dall’altra ne costituisce un limite, perché non fornisce una ragione esterna alla critica della comodità, intesa come concetto, che giustifichi la scelta di un atteggiamento di rifiuto nei confronti delle comodità, intese come prassi.

La debolezza teorica di questo approccio, che del resto rifiuta esplicitamente le teorie ‘alte’, nel senso di astratte, per privilegiare un atteggiamento più pratico, lo troviamo a pagina 199, quando Boni dice: “In astratto, la tecnologia non è, di per sé, né bene né male.” E questo dopo aver citato a più riprese sia Anders sia Illich, due filosofi che hanno chiaramente spiegato che la tecnologia è indipendente dall’uomo e, anzi, agisce contro di lui. Una tecnologia in astratto non esiste, c’è solo una tecnologia in concreto – che è anche una tautologia a ben vedere – e a questa concretezza è possibile opporsi solo, in primis, con il pensiero, cioè con una decisione pre fisica. Per fondare questa teoria è necessario un pensiero che riesca a vedere oltre i fenomeni.

Fatta salva questa obiezione teorica non possiamo che concordare, per volontà, con le conclusioni, anche se ne dissentiamo, per ragione: “Il rilassamento dei sensi di homo comfort, tecnologicamente promosso, va ridotto affinché si guadagni in sostenibilità ecologica, riattivazione di saperi manuali, ritmi di vita, rieducazione delle capacità sensoriali, orizzontalità dei processi decisionali” (p. 208). In altre parole, questo desiderio può valere per una volontà singola, non per una ragione collettiva.

La vera domanda da porre è allora: l’homo comfort può accedere ad una ragione collettiva?

 

 

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