Recensione: Zygmunt Bauman, Per tutti i gusti: la cultura nell’età dei consumi, Laterza

Zygmunt Bauman, Per tutti i gusti: la cultura nell’età dei consumi
Laterza, pp. 144, euro 14
Traduzione Daniela Francesconi
La cultura è un concetto di creazione relativamente recente. Nasce propriamente con la nascita dell’illuminismo – che è a sua volta difficile collocare in modo preciso – e la sua realizzazione ne diviene in breve la certificazione di valore. L’illuminismo funziona se nel corso del tempo il suo prodotto – la cultura – viene trasmesso ad un sempre maggior numero di persone. La supposizione – prima implicita, poi esplicita e per finire abbandonata – è che attraverso il possesso di questo patrimonio comune l’umanità sarebbe potuta arrivare a creare una società non ulteriormente modificabile. Il paradiso in terra, in altre parole. I secoli che hanno visto svolgersi questo tentativo dimostrano però tutti i limiti di questa speranza. I limiti sono dovuti al fatto che questo patrimonio comune non è né visibile in sé né dimostrabile in quanto comune. Stiamo in parole semplici affermando la vittoria del nominalismo sul realismo; ove prima esisteva un accordo condiviso sull’esistenza di una realtà comune, ora vi è solo la convivenza, nemmeno troppo pacifica, di visioni concorrenziali della realtà. In questa situazione, l’intellettuale, colui il cui compito è portare la cultura alle masse, scompare. La sua scomparsa è però solo relativa. Il suo – dell’intellettuale – è un passaggio di stato, da legislatore a interprete. “L’elite culturale è viva e vegeta; è più attiva e appassionata che mai. Ma è troppo impegnata a inseguire il gran colpo e altri eventi famosi collegati alla cultura per trovare il tempo di formulare canoni di fede o convertire ad essi gli altri” (p. 7).
L’abbandono della fede – una fede razionale, fede in una realtà condivisibile e dimostrabile – da parte dell’intellettuale si accompagna alla ricerca di una nuova fede da parte delle masse. Queste masse, ormai disilluse, hanno imparato che la cultura nella sua accezione debole può essere comunque un metodo valido, individuale, per sanare le mancanze che la perdita di un progetto generale da parte della modernità ha lasciato al mondo: “Liberata dagli obblighi ad essa imposti dai suoi creatori (…) la cultura può ora concentrarsi sul soddisfacimento di bisogni individuali e sulla soluzione dei problemi del singolo individuo, che lotta con le sfide e le difficoltà della vita personale. (p. 18).
“La cultura oggi è costituita da offerte, non da proibizioni, da proposte, non da norme” (p. 19). Questo è il significato di cultura debole. Se al pubblico televisivo si offre uno spettacolo – metti lo show di Sanremo – ed il pubblico si mostra ricettivo nei confronti di questo spettacolo, esso diventa cultura; “Il segno distintivo che connota l’appartenenza a una elite culturale sono oggi un massimo di tolleranza e un minimo di schizzinosità” (p. 20). Si spiegano in questo modo tutti i commenti e gli interventi su un evento che non ha alcun valore culturale al di là del suo appartenere allo spettacolo. Ciò che è spettacolo è cultura, perché la cultura non ha più un fine da perseguire. “Riassumendo: nella modernità liquida la cultura non ha un ‘volgo’ da illuminare ed elevare; ha, invece, clienti da sedurre. (…). La funzione della cultura non è di soddisfare bisogni esistenti, ma di crearne di nuovi” (p. 23).
La distruzione della gerarchia dell’essere ha conseguenze sociali molto ampie. Se non esiste più un punto di arrivo dello sviluppo, ogni modalità di affrontare la vita è, dal punto di vista del valore, equivalente alle altre. Questa considerazione ha effetto sia sul singolo, sempre più spinto verso una soluzione individuale ai problemi collettivi, sia sui gruppi, sempre più spinti a credere che la difesa dei propri costumi sia il punto di partenza per un’eguaglianza da costruire. La difesa dei diritti culturali delle minoranze è stato uno dei cavalli di battaglia nella lotta della sinistra. Ma, difendendo questa posizione a oltranza, i gruppi di sinistra hanno perso di vista il loro obiettivo fondante, ovvero la redistribuzione delle risorse materiali. In assenza di una redistribuzione di questo tipo, nessuna società pacificata è prevedibile. Si perpetua la lotta di tutti contro tutti, il vecchio homo homini lupus si mantiene attraverso la cieca difesa di diritti di carta: “La nuova interpretazione dei diritti umani fondamentali come minimo pone la base per la tolleranza reciproca; ma non si spinge, in linea di principio, a porre le basi per la solidarietà reciproca. La nuova interpretazione manda in pezzi la gerarchia di culture ereditata dal passato e sbriciola il modello dell’assimilazione come un’evoluzione culturale naturalmente di progresso, che conduce inevitabilmente verso un modello di arrivo predeterminato. In termini assiologici, le relazioni culturali non sono più verticali ma orizzontali: nessuna cultura può pretendere o avere titolo a che qualsiasi altra le si dimostri servile, umile e sottomessa in base alla sua presunta superiorità o progressismo” (pp. 50-51). La tendenza innata della sinistra di movimento a scagliarsi in modo irriflesso per la difesa delle peculiarità culturali ha fatto sì che la concessione di questo diritto sia stata utilizzato dai ricch! i per rimandare sine die la concessione di un uguale accesso ai beni materiali forniti dalla modernità. Nella fase liquida della modernità il diritto ad essere diversi annulla, nel senso che lo toglie di vista, il diritto ad una vita sensata; il fatto che ad ogni interpretazione culturale sia dato pari valore significa che alla fine nessun accordo è realizzabile nel dialogo tra le culture.
Per tutti i gusti significa proprio questo, che non viene più cercato un accordo. Ognuno ha diritto, in base alle proprie capacità, a trovare qualcosa che soddisfi il suo gusto. Non importa né che questo gusto soggettivo violi i diritti altrui alla dignità né che esso sia il prodotto condizionato dell’offerta del mercato. Il gusto andrebbe costruito, con una serie di tentativi ed errori. L’attuale struttura mercantile della cultura però non favorisce questo atteggiamento. Ricordando le parole di Adorno, Bauman chiude il suo libro affermando che l’artista – e con lui il fruitore dell’arte – deve avere nei confronti del suo oggetto un atteggiamento dialettico, di rifiuto ed accettazione. Rifiuto per quanto in esso scorge di disfunzionale all’umanità e di accettazione, perché solo attraverso una parziale comunanza di fini con il reale esistente, è possibile per l’artista portare a conoscenza delle masse ciò che ritiene disumano.
La grande domanda finale, il grande dubbio per il quale non c’è risposta attuale e che Bauman, da ammirevole e indomito illuminista qual è, volge in speranza positiva, è proprio questa: possiamo sperare che nel futuro ciò che è disumano non divenga un gusto come tutti gli altri, e quindi come tutti gli altri, accettabile? Per questo è necessario un indefesso lavoro sulle coscienze, sullo spirito del tempo ma anche, e soprattutto forse, sui mezzi che abbiamo a disposizione per la formazione della coscienza. Chiudiamo citando quindi Adorno, che poco prima di morire aveva già chiara la situazione: “Chi non sa cosa sta vedendo o udendo, non è che goda il privilegio di un rapporto immediato con le opere, ma è incapace di percepire queste ultime.”

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