Recensione: Jonathan Crary, 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi

Jonathan Crary, 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno
Einaudi, p. 144, euro 18
Traduzione Mario Vigiak

La sociologia non offre soluzioni ai problemi che osserva. Si limita a descriverli fornendo delle cause possibili. Il libro di Jonathan Crary compie al meglio questo compito descrivendo un processo che si è compiuto invisibilmente nel corso dei secoli, a partire dall’inizio della rivoluzione industriale: l’occupazione di tutto il tempo, e quindi di tutto lo spazio, da parte delle merci offerte dalla produzione capitalistica.

Il sonno in quanto fenomeno naturale parrebbe al riparo dai tentativi di commercializzarlo. Il punto però non è nella sua commerciabilità, ma nella possibilità di trasformarlo sia culturalmente sia praticamente in un fenomeno da gestire coscientemente. Una volta che questa trasformazione si è compita, il capitalismo potrà occupare lo spazio, ed il tempo, che si è così creato: “La ricerca scientifica attuale non ha più come obiettivo solo la stimolazione di uno stato di veglia, quanto piuttosto la riduzione del sonno come bisogno naturale del corpo umano” (p. 4). La tecnologia diffusa garantisce in maniera diretta un suo funzionamento ininterrotto; le macchine funzionano 24 ore al giorno, tutti i giorni, tutto l’anno. Se se ne rompa una, viene subito sostituita: il processo è invisibile e, come ogni cosa invisibile, alla fine non viene più percepita coscientemente. Tutto ciò che non viene percepito coscientemente appare naturale. L’uomo è inadatto strutturalmente a rispondere a questa società e diviene quindi suo compito, suo dovere, modificarsi; stiamo proprio parlando della riduzione dell’uomo a parte della macchina: “I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastruttura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo” (p. 6)

Questa trasformazione non si realizza tramite operazioni sociali in grande stile, ma attraverso un lavorio lento e costante sui presupposti ideologici in cui viviamo. Ora è il singolo che deve auto costruirsi per essere adatto a questa società. L’adattamento si realizza attraverso l’acquisizione di tutti gli artefatti ritenuti necessari allo scopo. La necessità viene definita dalla pubblicità che mette le merci sotto gli occhi degli acquirenti, convincendoli della loro necessità. La ricerca dei mezzi per raggiungere le merci viene effettuata ai danni della possibilità di condivisione collettiva delle condizioni di esistenza. La comunanza di usi e costumi del villaggio globale è solo un’illusione di socialità, dietro cui si nascondono individui in lotta tra loro. “Un ambiente 24/7 ha solo le sembianze di una società vera e propria, ma in realtà rappresenta un modello non sociale di performance automatiche e una sospensione dell’esistenza che dissimula i costi umani necessari a sostenerne il funzionamento” (p. 11)

Questa è l’impostazione generale del libro. Viviamo in una società, che non è più una società, ove esistono macchine che per soddisfare il proprio bisogno di funzionamento impongono a noi, umani, l’illusione di avere bisogno di loro per esistere. “Il 24/7 (…) proclama l’offerta di una disponibilità assoluta e quindi l’insorgere incessante di sempre nuovi bisogni e la loro continua sollecitazione, ma la perenne impossibilità di un loro completo e definitivo appagamento” (p. 12).

Potrà sembrare una visione eccessiva, ma certamente pone in luce alcuni punti critici della digitalizzazione del mondo, in atto a partire dalla diffusione del personal computer. La criticità salta all’occhio se andiamo a vedere casi specifici in cui l’alterazione del sonno viene imposta. L’intelligence americana s’è resa responsabile di torture ai prigionieri di guerra detenuti nel campo di Guantanamo. Abbinata alle torture fisiche vi era la privazione del sonno e la conseguente completa alterazione dei ritmi circadiani. In Afghanistan l’esercito americano ha effettuato attacchi notturni con lo scopo esplicito di privare i propri nemici, ma anche – effetti collaterali – le popolazioni ivi residenti del momento di rifugio offerto dal sonno. Il mondo 24/7 non fa altro che porre in atto, con l’approvazione esplicita e/o implicita di quasi tutti queste dinamiche. Solo che non vengono etichettate come torture ma come un nuovo, e più appagante, modo di vivere.

“Secondo Frederick Jameson, con il venir meno di quei confini che per consuetudine erano sentiti come invalicabili tra la sfera lavorativa e quella del tempo libero, l’imperativo di guardare le immagini è diventato di fondamentale importanza per ciò che concerne il funzionamento delle istituzioni dominanti nell’epoca attuale. Egli sottolinea il fatto che le immagini della cultura di massa, fino alla metà del XX secolo, rappresentavano spesso un modo per aggirare gli opprimenti divieti del Super-io. Ora in una sorta di capovolgimento, le perentorie istanze di perpetua immersione 24/7 nel flusso di contenuti visivi diventano di fatto una nuova forma i Super-io istituzionalizzato” (p. 51). La buona borghesia viennese di inizio novecento viveva sotto l’egida di un super io parentale, noi sotto quella di un super io televisivo. E proprio come il rispetto del super io parentale non garantisce circa la giustizia ma solo sull’assenza di una pena diretta da pagare, così il rispetto del super io televisivo non garantisce altro che la possibilità di continuare a godere delle facilitazioni che l’appartenenza a questo mondo comporta. Il mantenimento della struttura tecnologica che consente la riduzione del mondo ad immagini si scontra in modo irrisolvibile con l’idea di un mondo giusto. Nessun altro mondo è possibile se nel mondo continuano ad esistere Microsoft e Google. In termini filosofici, citando Agamben, Crary afferma che siamo completamente dipendenti dalla struttura tecnologica in cui siamo inseriti; ma, oltre ad una dipendenza materiale, vi è anche una dipendenza culturale. Ciò che condiziona gli individui è l’idea della funzionalità 24/7. L’impossibilità di accettare il vuoto, il nulla operativo come una possibilità dell’esistenza, precipita il soggetto nelle spire del sistema 24/7.

La società 24/7 toglie al lavoratore, oltre che l’alternanza lavoro/riposo, anche la possibilità di essere soddisfatto del proprio lavoro. Se il lavoro è continuo, nessun prodotto è definitivo, nessuna soddisfazione è raggiungibile. Solo nell’acquisto di merci e servizi c’è una temporanea, ed illusoria, situazione di equilibrio.

Il percorso storico della società 24/7 vede il progressivo smantellamento delle strutture sociali e di significato atte a garantire l’alternanza veglia/riposo. Non è possibile individuare ambienti rigidamente 24/7 come non vi sono ambienti completamente atti al riposo, al sonno. L’uomo è per sua natura abile all’operatività in tempi brevissimi. Ciò che contraddistingue la società attuale è che questa predisposizione viene elevata a norma naturale di vita, tanto che essa distrugge la tendenza opposta. Ricordiamo che solo attraverso un processo dialettico, di interazione tra opposti, vi è la possibilità di una crescita.

Il capitalismo 24/7 è una realtà che si oppone alla crescita dell’individuo, stante che la crescita individuale è possibile solo all’interno di un gruppo sociale. La necessità teorica di tenere uniti i due poli dialettici – individuo e società – è ciò che determina le difficoltà pratiche e la sconfitta, pure pratica, dell’individuo rispetto a ciò che ha storicamente sostituito la società: il mercato. Il mercato ovverosia un insieme di regole numeriche, si è sostituito alla società, ovvero un insieme di regole vuoi abitudinarie vuoi significative ovvero ricavate logicamente dalla situazione. Se alle regole numeriche fosse possibile abbinare il secondo tipo di regole, tutto andrebbe bene. Ma il punto sta proprio qui. Ogni regola numerica tende ad eliminare le eccezioni, ovvero regole non riducibili ai numeri. L’individuo non può crescere se non simulando una dipendenza dai numeri, una dipendenza in molti casi reale e non simulata. Una crescita che non coincida con l’accumulazione di oggetti, che sia quindi numerabile, non è approvata. Anche le apparenti eccezioni, le persone che si affermano per supposte qualità spirituali, arrivano al successo esibendosi sul mercato, riducendo se stessi a parte dello spettacolo onnicomprensivo.

La riduzione di tutto a numero ha delle conseguenze anche sulle azioni normalmente compiute per vivere, sul lavoro individuale. Il lavoro spesso non è più volto ad una trasformazione attiva del reale ma solo all’applicazione di norme preconfezionare a realtà materiali predefinite. La necessaria ripetitività delle operazioni svolte nell’ambiente 24/7 è contraria alla consapevolezza dell’individuo, consapevolezza che è a sua volta necessaria per lo sviluppo di una società democratica. Il capitalismo 24/7 è quasi esplicitamente contrario alla democrazia. Lo è ‘quasi’ perché un’affermazione del genere non sarebbe accettata dal largo pubblico. L’unico modo per fare ingoiare alle persone lo stato di cose – immutabile – è attraverso la presa di possesso dei canali comunicativi. La libertà della rete è, come già detto, fittizia poiché tale libertà è inserita all’interno di un più ampio meccanismo di controllo di cui anche chi si crede libero entra a far parte divenendone corresponsabile.

I sistemi di comunicazione che si sono succeduti nelle varie epoche sono pallide prefigurazioni del potere che ha assunto sin dal suo apparire la televisione. La televisione rappresenta uno strumento responsabile di un mutamento epocale nelle coscienze delle persone. E’ un ottimo mezzo di controllo sociale, perché il soggetto acquisisce norme e modi di fare sconosciuti ed uniformi. Il passaggio degli anni ’90 con l’ingresso degli strumenti informatici non ha tolto importanza al medium televisivo, che si è prontamente ibridato con i nuovi media. Proprio come non vi è stata l’eliminazione completa di ambienti non 24/7 – tali ambienti hanno progressivamente assunto aspetti di questo nuovo modi di agire – così non ci sono stati ambienti che hanno rifiutato in toto la prassi imposta dalla televisione. La supposta autonomia e libertà dei consumatori dei prodotti della rete è una bugia; in essi è sempre presente molta della passività indotta dal medium televisivo.

Questa passività, come già detto, si oppone all’affermazione di un soggetto consapevole. Crary nell’ultimo capitolo compie un’interessante analisi unendo gli sforzi dei teorici delle strutture sociali nello sviluppo dell’indipendenza (Sarte, Deleuze e Debord) ai precedenti sforzi della teoria freudiana per un’indipendenza individuale. Come ho detto poc’anzi, entrambe le prospettive, nel loro essere fondamentalmente manichee, non riescono a cogliere nel segno. Ci vanno sicuramente più vicini i teorici francesi, con il costante richiamo ad una necessaria struttura esterna, antecedente e superiore all’individuo che lo garantisca nella sua ricerca del senso. La teoria freudiana invece resta molto lontana dal proporre una reale soluzione, perché il richiamo all’indipendenza dell’io non è altro che un richiamo all’acquiescenza rispetto alle storture della società.

Non vi sono soluzioni generali, ottenibili attraverso l’applicazione di un metodo, è vero. In questo Carey si dimostra estremamente corretto, non rinunciando comunque a segnalare le difficoltà etiche cui vanno incontro coloro i quali sostengono di vivere nel migliore dei mondi possibili. Ogni soluzione non può essere, dialetticamente, che parziale, destinata ad essere scavalcata dal normale divenire delle cose. La contraddittorietà della teoria rispetto alla realtà pratica è ciò che consente a quest’ultima, anche se sbagliata, di perpetuarsi ed al capitalismo di minare alla base il naturale bisogno di dormire.

Buonanotte.

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