Recensione: Philip Roth, La nostra gang, Einaudi

Philip Roth, La nostra gang

Einaudi, pp. 160, euro 18

Traduzione Norman Gobetti

 

Dopo oltre 40 anni dalla pubblicazione – il libro è del ’71 – torna in libreria la satira anti Nixon che Philip Roth scrisse anticipatamente rispetto allo scandalo Watergate. Evidentemente il politico in questione aveva comunque tutte le carte in regola per essere già oggetto di satira, anche senza lo scivolone del tentato insabbiamento venuto alla luce tre anni dopo.

Si tratta di un libro sicuramente datato e, ad aumentarne la distanza, pieno zeppo di riferimenti alla politica americana dell’epoca, ma che resta un buon libro sia per come è scritto, con aspetti volutamente surreali, sia per la purezza dell’intento di rappresentare l’essenza di Tricky Dicky, l’infido riccardino. L’aspetto sovratemporale dell’inaffidabilità del ceto politico occidentale lo rende quasi attuale. Le banalità dette a man salva, le affermazioni di principio poi smentite dai fatti, l’atteggiamento accomodante degli organi di stampa verso le manchevolezze dei politici, tutto questo era vero allora come oggi e, oltrepassate le prime pagine, un po’ noiose, arriviamo ad accompagnare Nixon attraverso i vari discorsi nei quali ha sostenuto il suo perbenismo di facciata sino alla campagna elettorale conclusiva, mettendoci le mani nei capelli alla prospettiva che uno come lui possa, anche nel supposto aldilà, avere spazio e modo di rappresentare qualcuno.

I dannati, la sua gang.

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