Recensione: Donna Tartt, Il cardellino, Rizzoli

Donna Tartt, Il cardellino

Rizzoli, pp. 892, euro 20

traduzione Mirko Zilahi de’ Gyorgyokai

 

Scritto tutto in prima persona singolare; da questa semplice constatazione si può a ragione dedurre che il recente tomo di Donna Tartt, tanto osannato dalla critica, rientra a pieno titolo nella categoria del romanzo di formazione. Il protagonista infatti è il giovane Theo Decker che, da una stanza d’albergo ad Amsterdam ci racconta la sua breve vita; una vita che l’ha formato, come ci si aspetta in ogni romanzo di questo tipo, attraverso il dolore. Il suo, di dolore, è legato alla perdita della madre a seguito di un attentato all’interno di un museo a New York. A dodici anni Theo resta orfano – il padre è scappato di casa da più di un anno – e possessore illegale di un piccolo quadro furtivamente sottratto al museo nella confusione dell’attentato: si tratta del cardellino del titolo, piccolo dipinto del pittore olandese, allievo di Rembrandt, Carel Fabritius.

Dopo questo inizio sorprendente, che prometteva bene, il romanzo si appesantisce gradualmente. La formazione seguita dal giovane si svolge tra una New York stile Woody Allen, con un amore che non sarà mai corrisposto e un gentile artigiano che si prenderà cura dello scapestrato giovane, e i territori desertici del Nevada, dove il nostro stringe un legame profondo con Boris, un altro ragazzo senza madre e con padre assente. Il finale, da cui Theo ricaverà le pedanti pagine moraleggianti con cui si chiude il libro, vede i due amici, ora quasi trentenni, catapultati ad Amsterdam, ove il quadretto è miracolosamente ricomparso.

I lettori del libro paiono condividere questa idea di pesantezza, se è vero (notizia trovata in rete, e quindi da prendere con le pinze) che più della metà di quelli che l’hanno comprato non l’ha finito. Un romanzo noioso che riprende i temi dickensiani senza avere la forza dello scrittore inglese e, soprattutto, senza rendersi conto di essere fuori tempo. Il dramma morale di Theo per il possesso illegale del quadro fa molto ‘800, ma questo elemento mal si concilia con le esperienze nel Nevada dalle quali, comunque, il giovane esce in modo abbastanza incredibile. Traslato narrativamente a New York Theo vive un amore in maniera impersonale dal quale sarà liberato, altrettanto impersonalmente, dalla ricomparsa di Boris. In definitiva Theo non è il soggetto del romanzo, bensì l’oggetto nelle mani della Tartt, che gli fa fare quello che vuole senza tanto preoccuparsi dell’effetto che ottiene. In questo mi pare si possa trovare la più grave pecca del romanzo. Il soggetto del romanzo moderno è attivo, nel senso che trasforma il mondo in base ai propri principi; Theo no, Theo si lascia trascinare dalla corrente (Theo non ha principi, è il protagonista ideale della letteratura di consumo dei nostri tempi) fino ad un happy end che è furbescamente nascosto dalle sue pretestuose riflessioni morali.

La Tartt mette in apertura del romanzo una frase di Camus, L’assurdo non libera, vincola.

Autoironia inconsapevole?

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