Recensione: John Irving, Il mondo secondo Garp

John Irving
IL MONDO SECONDO GARP
Edizioni Bompiani, pp. 511, € 11
Traduzione di Pier Francesco Paolini

Questo romanzo, ormai un classico (il libro è del ’78), contiene celata tra le sue pagine la risposta alla domanda fondamentale della letteratura: perché uno scrive, e tanti leggono? Sia chiaro che in questo il romanzo di Irving non è certo un unicum, molti ci sono già riusciti prima di lui e molti ci riusciranno in seguito. Ma questi molti sembrano scompariredi fronte alla montante marea di quelli che la domanda, sia scrivendo sia leggendo, nemmeno se la pongono. Non se la pongono perché si accontentano, scrivendo e leggendo, di rispecchiare la realtà esistente, senza sforzarsi di trascenderla. Un romanziere invece scrive perché vuole trovare un senso nell’insensatezza di ciò che accade e, dato che ciò che accade non ha senso, deve inventare una struttura entro la quale i suoi personaggi trovino posto e compiano azioni secondo un senso. La vita di Garp quindi, figlio unigenito di madre quasi vergine, studente esuberante e scrittore promiscuo, marito strettamente legato a Helen, traditore spudorato della stessa Helen, padre timoroso e costantemente in ansia, probo cittadino indignato per la violenza ai bambini e alle donne e tante altre cose ancora è una vita, diciamo così, ultra reale, che serve nella sua sovrabbondanza ad indicare a noi lettori un senso possibile. Più delle mie parole però, già tante volte usate per incensare i libri di Irving, valgano le parole che Garp usa per descrivere il suo lavoro di scrittore: “La domanda che più odiava, riguardo al suo lavoro, era quanto ci fosse di ‘vero’ in esso, quanto ci fosse di legato ad ‘esperienze personali’. (‘Vero’ – non nel senso buono di Jillsy Sloper – bensì nel senso di ‘preso dalla vita reale’.) Di solito, a tale domanda, senza perdere la pazienza, Garp rispondeva che il dato autobiog! rafico – qualora sussista – è la cosa meno interessante di un romanzo, che non va mai letto in questa chiave. L’arte del narratore – soggiungeva – consiste nell’inventare secondo verità; essa – al pari di ogni arte – è un lavoro di selezione. I ricordi di vita vissuta (‘tutti i traumi rammentati delle nostre immemorabili vita’) sono pessimi modelli, per il narratore, diceva Garp. ‘La fantasia deve superare la vita reale’, egli ha scritto. E, coerentemente, detestava ciò che chiamava ‘il fasullo rendiconto delle traversie personali’, alludendo a scrittori i cui libri sono considerati importanti perché qualcosa di importante è capitato loro, nella vita reale. Il peggior motivo (secondo Garp) per cui qualcosa entri a far parte di un romanzo è che questo qualcosa sia successo sul serio. “Tutto è successo! Qualsiasi cosa è realmente accaduta, una volta o l’altra! Diceva, con rabbia. “Se a un dato momento, in un romanzo, succede qualcosa, questo deve succedere solo perché è la cosa ideale per la trama, in quel momento.”
Uno scrive per la trama, che è inventata, e tanti leggono per la trama, accorgendosi che è reale.

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