Recensione: Jonathan Coe, Expo 58, Feltrinelli

Jonathan Coe, Expo 58
Feltrinelli, pp. 277
Traduzione Delfina Vezzoli
Jonathan Coe ha evidentemente smarrito la verve che lo animava nei suoi primi libri e propone in questo caso uno scipito romanzetto sulle occasioni perdute. Questo giudizio negativo sulla trama non può comunque togliere nulla alla qualità della scrittura, sempre ammirevole e al senso di déja vu che suscita leggere una storia ambientata attorno all’Atomium, il famoso monumento eretto in Belgio in occasione dell’Expo 58.
Il protagonista della vicenda, Mr. Foley, viene inviato dal suo governo a vigilare sul corretto funzionamento della taverna Britannia, ricreata a Bruxelles in occasione della mostra, per illustrare ai visitatori le caratteristiche dell’ospitalità inglese. Mr. Foley lascia a casa una giovane moglie, Sylvia, ed un’ancor più giovane figlia, Gill. A Bruxelles verrà coinvolto in improbabili vicende spionistiche imperniate attorno ad una misteriosa macchina, la Zeta, che scatena la cupidigia dello spionaggio russo. Ma, come James Bond insegna, non è possibile una vicenda di spionaggio senza una storia d’amore, che puntualmente coglie il giovane Foley e la bellissima hostess Anneke.
Al di là della conclusione, che il lettore volonteroso scoprirà velocemente e facilmente in questo scorrevolissimo romanzo, si possono gustare alcuni siparietti tra mr. Foley e le improbabili spie che popolano la storia, citazioni irrisorie nei confronti dei romanzi di Fleming, che tanto successo ebbero nel periodo della guerra fredda. Un po’ poco da uno scrittore che con La famiglia Winshaw e La casa del sonno aveva riscosso tanto successo presso i lettori italiani.
Più che di una storia raccontata per esprimere un’urgenza dell’artista, pare un prodotto confezionato per soddisfare un committente, magari l’ente per il turismo della capitale belga. Chissà se a Milano, fra cinquant’anni, qualcuno avrà il coraggio di raccontare la storia dell’expò, cercando di farsi due risate.

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