Recensione: Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi

Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi
Einaudi, pp. 330, euro 19
Per iniziare due nozioni elementari. Il capitalismo è un sistema di gestione dell’economia per cui un soggetto (capitalista) ottiene da altri soggetti un guadagno derivante dalla vendita a questi soggetti di prodotti e servizi che egli, il capitalista, ha prodotto a costi inferiori rispetto a quelli di vendita. Perché questa modalità continui a funzionare, occorre che i soggetti secondi continuino ad acquistare i prodotti del soggetto primo. Questo schema base è ovviamente molto più complesso, tanto più complesso che spesso smette di funzionare. All’ultima crisi del ciclo produzione-consumo il sistema ha risposto con l’accumulazione finanziaria: “L’accumulazione finanziaria è stata la risposta dell’economia capitalistica alla stagnazione in cui stava cadendo il regime produttivista” (p. 33).
Di fronte alla limitata possibilità di consumo di quello che possiamo genericamente chiamare popolo, limitazioni strutturali al mantenimento degli alti consumi di un’altra fetta di popolazione, più ristretta, che altrettanto genericamente possiamo chiamare ricchi, non si è pensato di promuovere una serie di riforme democratiche che garantissero a ciascuno di che vivere in maniera decente. No, si è scelta l’accumulazione finanziaria: “Al contrario (rispetto all’accumulazione capitalistica classica, ndA) l’accumulazione finanziaria salta tutte le fasi intermedie. Il denaro nasce o dal denaro stesso, come avviene tipicamente con la speculazione su titoli, divise, tassi d’interesse, derivati; oppure viene creato dal nulla mediante il credito, la sua trasformazione in titoli commerciali e la parallela produzione di prodotti finanziari inediti, consistenti ad esempio in nuovi tipi di derivati strutturati (cioè formati da pacchetti di altri titoli). In tale processo un ruolo determinante è svolto dai mercati finanziari. Per questo motivo si parla anche di ‘accumulazione dominata dalla finanza” (p. 34).
Per procedere lungo questa finanziarizzazione dell’economia, le banche hanno portato agli estremi una tendenza già insita in loro, ma che comunque era sempre rimasta entro limiti accettabili. Hanno iniziato a creare denaro attraverso prestiti e la successiva messa in vendita dei titoli che a tali prestiti si riferiscono: è la cartolarizzazione. Questo processo ha raggiunto livelli tali però da rendere l’attività bancaria estremamente insicura, sospesa nel vuoto. Quando nel 2007-2008 in America è iniziata la crisi detta dei mutui subprime ciò è imputabile al fatto che il valore creato dalle banche attraverso la vendita dei crediti da loro concessi a persone non in grado di rifonderli, per via della disoccupazione che si andava allargando, si è rivelato nullo. Sono i famosi ‘titoli tossici’ misteriosamente parcheggiati nelle bad bank. Al di là dei termini tecnici ciò che risulta dai dati che ci fornisce Gallino è che la crisi è stata tamponata erogando 20 trilioni di dollari, di cui 4 nella sola UE, a banche private che di detti prestiti hanno riversato ben poco sull’economia reale (cfr. p. 34  e sgg).
Il fatto che il prestito concesso non si sia riversato su chi davvero ne aveva bisogno permette di affrontare il tema scottante sollevato da Gallino. Questo stato di cose non è immodificabile, non è iscritto irrevocabilmente nella struttura della realtà ma dipende da una violazione programmatica dei principi della democrazia, dovuta all’alleanza realizzatasi negli ultimi decenni tra banche e governi. I politici non sono inermi burattini nelle mani del fantomatico mercato, ma soggetti attivi che piegano le politiche dei loro paesi per sostenere le banche a scapito dell’economia reale.
Abbiamo già visto come Bauman sostenga che l’aumento dell’ineguaglianza verificatosi negli ultimi anni non sia inevitabile. Gallino ci fornisce i dati numerici con cui guardare tale ineguaglianza: “(negli USA) L’1 per cento dei contribuenti percepiva nel 1980 il 9 per cento del PIL, mentre nel 2006 è arrivato a toccare il 23 per cento. Al fondo della piramide distributiva, il 40 per cento della popolazione ha visto la propria quota di reddito scendere, nello stesso periodo, dal 18 al 14 per cento (… ) ciascun componente dello 0.6 per cento ella popolazione al vertice della piramide possiede una ricchezza pari a 1315 volte quella di ciascuno dei tre miliardi e duecento milioni che formano la base di essa” (pp. 51-52)
La forbice creatasi tra i redditi alti e quelli bassi non è il frutto automatico del mercato, dietro vi è una ben precisa scelta politica, volta ad incentivare la finanziarizzazione e ad accrescere i benefici di chi investe in prodotti finanziari, riducendo le tasse pagate su tali prodotti: “Negli UE come negli USA, la creazione diretta di occupazione, che sarebbe il mezzo migliore per contenere le disuguaglianze, è del tutto al di fuori dell’orizzonte di governi che sono stati e tuttora sono marcatamente keynesiani, ossia favorevoli a un robusto intervento dello stato, soltanto finché si è trattato di salvare le banche; mentre appaiono incrollabilmente conservatori, ostili a qualsiasi programma pubblico che abbia tra i suoi fini il pieno impiego, a fronte dello scandalo sociale e economico costituito dalla disoccupazione” (pp. 69-70). In sostanza “Il regime di accumulazione del capitale dominato dalla finanza è stato in gran parte una creatura della politica, (p. 73). In questo senso Gallino parla di colpo di stato: una parte dei governanti eletti agisce per favorire gli interessi di una parte della società, segnatamente quella che detiene il potere dato dalle leve finanziarie. Non è necessario che tale favoreggiamento sia consapevole, si badi bene. Ciò che conta è che l’azione politica non è tesa, come dovrebbe, all’interesse comune.
“Il sistema finanziario sviluppatosi negli ultimi decenni si fonda, non meno che sulla produzione di denaro per mezzo di denaro, sulla produzione e gestione di rischio. Pertanto l’intera vicenda della crisi può venire efficacemente ricostruita seguendo lo sviluppo del sistema escogitato dalle banche per allontanare da sé diverse tipologie di rischio” (p. 128). L’allontanamento del rischio è stato possibile tramite la creazione di trucchi contabili e sfruttando la agevolazioni legislative concesse dai governi UE e USA al solo scopo di attirare i capitali. Ma alla fine il rischio si è rivelato ineliminabile. Quando ha colpito però, il conto non è stato presentato agli attori primi delle azioni rischiose bensì a chi di tali azioni è stato l’inconsapevole spettatore. Attraverso il controllo dei mezzi di informazione, governi e banche hanno fatto passare la vulgata della imprevedibilità del crollo dei mercati e, in parte, l’idea che di tale crollo siamo tutti un po’ responsabili. I dati che riporta Gallino però ci portano in tutt’altra direzione.
“Il debito aggregato dei paesi UE era in effetti cresciuto di ben 20 punti in soli tre anni (2008 – 2010), passando dal 60 all’80 per cento del PIL, ma ciò era avvenuto soprattutto a causa dei salvataggi delle banche a spese dello stato, non per un presunto aumento della spesa per la protezione sociale. Infatti questa era stabile da tempo, in media, attorno al 25 per cento del PIL” (p. 156). La strada da intraprendere è quindi quella di un contenimento dello strapotere della finanza e della sua libertà di violare impunemente le regole contabili necessarie per il buon funzionamento di un’impresa. Questa direzione però non pare sia stata colta dai responsabili diretti dello stato delle cose. Gallino ci annuncia che i provvedimenti presi per evitare il ritorno della crisi non sono né convincenti né esaustivi. Ironicamente si chiede se sia meglio insegnare a Terminator le buone maniere, o smontarlo (cfr. p. 143 e sgg).
Smontare Terminator significa ridare voce alla politica: “I motivi dell’involuzione politica della UE non sono da ricercare dunque soltanto nello strapotere della finanza, della quale la politica ovvero i politici sarebbero succubi. I politici sono giunti a rappresentare concordemente entro i governi stessi gli interessi del sistema finanziario internazionale e della classe sociale che ne controlla i gangli vitali. La UE avrà un futuro soltanto se e quando una diversa generazione di politici riuscirà a riportare la finanza alle sue funzioni primarie; funzioni che sono indispensabili per l’economia e la società. A condizione che la finanza sia strutturata e operi in veste di ancella di queste piuttosto che, come avviene oggi, in veste di padrona assoluta” (p. 205)
Il problema di fondo però, oltre che economico-politico, è anche culturale. Ad un’analisi sociologica dei comportamenti del popolo, nell’accezione iniziale, pare che esso abbia pienamente introiettato la visione politica di quelli che lo governano. Il popolo pare avere accettato supinamente le due direttive dei governi UE e USA di fronte alla crisi: “da un lato la rimercificazione dei diversi elementi che concorrono alla protezione sociale; dall’altro la conversione di una crisi nata principalmente dalla redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, in una distribuzione dei costi dall’alto verso il basso (p. 215). Per accettare questi due punti, occorre parlare dell’eliminazione della ragione oggettiva a favore della ragione strumentale (cfr. p. 227). La ragione strumentale conduce il soggetto a compiere azioni interamente finalizzate al raggiungimento di fini predisposti a prescindere da essa. La ragione oggettiva consente invece di analizzare l’esistente e porre fini atti a modificarlo, se tale esistente non soddisfa i suoi criteri. Detto in altre parole, più semplici: perché il 40 per cento della popolazione guarda inerme l’1 per cento che vive in un modo che essa non potrà mai nemmeno sfiorare? Gallino accenna brevemente a questo introducendo il concetto gramsciano di egemonia culturale, a cui lo stesso Foucault pare riferirsi con la sua governamentalità (cfr. p. 234 e sgg.). L’egemonia culturale che il popolo subisce, fa sì che esso “concepisca se stesso e la propria famiglia come se fossero letteralmente una sorta di impresa, con l’obbligo e la responsabilità di massimizzare la propria vita” (p. 236).
Le proposte politiche, mi pare venate di una profonda e condivisibile sfiducia, con cui Gallino termina il proprio libro vanno ovviamente nella direzione di una riduzione delle dimensioni delle banche e di un aumento della loro controllabilità. Con banche più piccole non si andrà più incontro alla creazione del mostro economico ‘troppo grande per essere fatto fallire (TBTF, Too Big To Fail) ed in ogni caso aumenterebbe la loro gestibilità politica. Il tutto per condurre l’economia ad essere funzione della società.
Entrambe queste proposte sono sostenute dai critici dell’economia neoliberale ma, apparentemente, nemmeno intraviste dai grandi paesi che guidano la UE e dal governo USA. Questo libro che è una durissima requisitoria contro le negligenze della politica e la ‘banalità del male’ dell’economia.
Un libro per informarsi e sfuggire all’egemonia culturale.

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