Recensione: Ermanno Vitale, Contro i beni comuni, Laterza

Ermanno Vitale, Contro i beni comuni
Laterza, pp. 124, euro 12
     Il libro di Ermanno Vitale nasce come una risposta di tipo polemico al libro di Ugo Mattei, Beni comuni un manifesto (Laterza). Nel suo libro Mattei sostiene la necessità di un ritorno alla gestione comune dei beni fondamentali della comunità. Secondo  Vitalequesta affermazione è sia generica sia ideologica. E’ generica perché, non definendo l’oggetto del bene comune, tutto diventa bene comune, tutto resta affidato alla gestione di un’idillica, e irrealistica, comunità integrale. E’ ideologica perché crea, senza che ce ne siano i fondamenti, un passato in cui la comunità era in grado di gestire i beni comuni nell’ottica del bene di tutti: “sotto l’aspetto di una proposta rivoluzionaria – una comunità politica fondata sulla primazia dei beni comuni – si nasconde, o meglio riaffiora, una visione del mondo premoderna, una regressione romantica al medioevo, visto letteralmente come luogo di una vita comunitaria felice ed ecologicamente equilibrata” (p. VIII).
     La gestione comunitaria dei beni non è prevista dalla costituzione. La nostra costituzione definisce la proprietà o pubblica o privata. Qualunque altro tipo di gestione della proprietà rischia di favorire, all’interno delle comunità che volessero adottare queste pratiche, gruppi di potere interni alle stesse. “Ciò che sembra premere ai costituenti è soprattutto – e non è poco, e andrebbe riscattato dall’oblio – che la proprietà privata non sia in contrasto con l’interesse generale dello stato e con i diritti fondamentali della persona e del cittadino” (p. 35). Più che una politica volta alla gestione dei beni comuni – politica irrealistica, mai attuata oltre a casi specifici relativi a piccole realtà – Vitale pare chiedere una politica illuministica volta alla gestione corretta della proprietà privata.
     Secondo Vitale la prospettiva adottata da Mattei non è altro che il frutto di una “lettura fenomenologica, (in cui) tutto è questione di contesto e di prospettiva, di soggiacente visione del mondo” (p. 38). (Poco prima, richiamandosi all’Heidegger definito da Bobbio il Principe delle tenebre, Mattei è stato definito un “barone della penombra”). Se tutto è questione di prospettiva, e non di come le cose sono in sé, non vi può più essere scontro tra le parti. Le prospettive vengono confrontate e la parte che detiene più potere semplicemente afferma il proprio punto di vista. All’interno delle comunità organiche studiate dagli antropologi non mancano certo i casi di negazione radicale dei diritti dell’uomo.
     Cercando di superare l’approssimazione e gli slogan populistici adottati nel libro di Mattei, Vitale cita due più illustri esempi di possibile visione ‘comunitaria’ dell’economia. In primis, Negri e Hardt con il loro Comune. Oltre il pubblico e il privato, e poi Stefano Rodotà con Beni comuni. Una strategia globale contro lo human divide. Di entrambi Vitale sottolinea alcuni passaggi positivi, che consistono in definitiva nella necessità di porre attraverso la condivisione comunitaria – delle moltitudini di Hardt e Negri o dell’illuminismo perbene di Rodotà – dei limiti all’onnivoro mercato; ciononostante si chiede ancora se non sia meglio espungere la dibattito il termine ‘comune’ che può dare adito a fraintendimenti, e “utilizzare una formula quale ‘beni fondamentali’ (Farrajoli) o beni pubblici globali (Gallino), per affrontare le questioni legate all’insostenibile (moralmente, economicamente, politicamente) human divide” (p. 70).
     Dopo questa pars destruens Vitale cerca di esporre i punti attorno ai quali riunirsi, trovare accordo, per difendere l’idea che vi debba essere qualcosa di comune tra le persone perché vi possa essere una società. Il rischio di questi elenchi è quello di cadere, anche senza volerlo, nella banalità. Si dicono cose ovvie, per chi guarda con la ragione, che però  si capisce non possono essere realizzate in questa società.  Cerchiamo allora di sintetizzare il pensiero dell’autore attorno alla locuzione che chiude il pamphlet: un po’ di sporco illuminismo. Perché basterebbe solo questo, un po’ di ragione applicata alla realtà per ridirigere in senso umano le enormi risorse disponibili. Il problema però è proprio questo, che la ragione è dialettica e quindi quanto più essa aumenta le sue possibilità tanto più essa permette alla mancanza di ragione di farsi valere.
     Contro i beni comuni non è un slogan utilizzabile dai sostenitori del libero mercato, ma, all’opposto, l’affermazione della necessità di un approccio razionale e politico – l’approccio che il libero mercato non vuole – alla questione della gestione individuale e comunitaria dei beni disponibili; che, secondo ragione, non possono essere messi tutti in vendita ma dovrebbero essere dati a ciascuno secondo necessità, e messi a disposizione da ciascuno secondo capacità.

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