Recensione: Slavoj Zizek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie

Slavoj Zizek, Vivere alla fine dei tempi
Ponte alle Grazie, pp. 555, euro 24.50
Traduzione Carlo Salzani
Come certamente sapranno quelli che seguono le recensioni della libreria, Slavoj Zizek è un filosofo marxista estremamente critico e coerente che, attraverso uno sguardo aggiornato sulla produzione culturale odierna cerca di fornire, da anni, la chiave per aprire la strada ad un ritorno in auge di idee che potremmo definire di estrema sinistra. Questa strada richiede la presa di consapevolezza da parte di chi la voglia percorrere degli inganni disseminati dalla struttura capitalista di produzione, tutti inganni che hanno avuto indubbiamente successo visto che l’idea comune circa le modalità di risolvere la situazione è per i più di tipo soggettivo: “La domanda da porre riguarda la mozione marxiana classica di rivoluzione proletaria: non è essa fin troppo soggettivista, dal momento che concepisce il comunismo come la vittoria finale del soggetto sulla sostanza? Questo non significa che dobbiamo accettare la necessità della dominazione sociale; dobbiamo piuttosto accettare il “primato dell’oggettivo” (Adorno): il modo di liberarci dei nostri padroni non sta nel far diventare il genere umano stesso il padrone collettivo della natura, ma nel riconoscere l’impostura della nozione stessa di Padrone” (pp. 341-342). Questi due punti sono i perni attorno a cui possiamo svolgere l’analisi del testo di Zizek: il necessario primato dell’oggettivo e l’inganno insito nell’idea di Padrone.
La riduzione della Realtà, che è ovviamente oggettiva, ad un insieme di percezioni soggettive è funzionale alla macchina del potere. Essa riesce, tramite questo spostamento ideologico, a ridurre i conflitti che si producono sul piano della produzione a conflitti che il soggetto deve gestire autonomamente. Questa trasformazione del punto di vista da cui guardare i problemi sociali ha richiesto anni, decenni anzi, ed ha lasciato dietro di sé tracce evidenti, che il filosofo ci segnala, sfruttando la sua passione per il cinema. Vediamo allora come i remake indichino il passaggio di fase delle aspettative del pubblico circa ciò che è lecito aspettarsi succeda. Ad esempio possiamo considerare le tre versioni cinematografiche di Io sono leggenda, film tratto dal best seller di Matheson. Il libro, e poi i film, racconta di un ultimo uomo sopravvissuto ad una devastante epidemia che ha distrutto la vita sulla terra; ma non può limitarsi a questo, ovvio. Allora quest’ultimo uomo incontra una donna-vampiro, uno degli zombie che sono sopravvissuti, di cui si innamora, Nei tre remake l’ultimo uomo trova una cura e muore, come Cristo. La sua morte cambia però forma ogni volta. Se il finale del libro esprimeva la relatività del mito del sacrificio – divino – visto che il protagonista moriva ucciso dagli zombie rendendosi conto che la sua morte sarebbe diventata una leggenda tra gli zombie stessi, il finale dei tre film – nei quali l’umanità si salva sempre visto che viene trovato un siero curativo – è sempre più spostato verso una significazione divina, ovvero la morte del protagonista è una riproposizione del mito – che vuole essere certificato di verità – della morte del figlio di Dio come mezzo di salvezza per l’umanità. La regressione ideologica è lampante, ! si propone ora una soluzione mitica ai problemi reali, mentre in origine il ‘problema’ non era nemmeno vissuto come tale. Anche nei film per i bambini – Kung Fu Panda – la soluzione dei problemi viene presentata come una semplice questione di punti di vista: “Dove sta allora l’idelogia del film? Torniamo alla formula chiave: Non c’è alcun ingrediente speciale sta solo a te. Per rendere qualcosa speciale devi solo credere che lo sia” (p. 113).
Anche molti film sulla guerra vengono costruiti come se fosse solo un problema di prospettiva, non un reale conflitto che vede in gioco interessi socio-economici: “Questa umanizzazione serve quindi a offuscare la questione fondamentale: il bisogno di un’analisi politica decisa di ciò che viene fatto in termini di attività politico-militare” (p. 97). Il libro di Zizek è pieno di esempi che mostrano il lavoro dell’ideologia, tutto volto a trasformare le modalità individuali di percezione della realtà con l’unico scopo di non portare alla luce il fallimento del disegno del capitalismo. La realtà di questo fallimento è invece percepibile se interpretiamo tutte queste manifestazioni ideologiche con la griglia di lettura del comportamento tipico assunto di fronte alla perdita dell’oggetto amato. Benché sviluppato in campo psicologico dalla dottoressa Elisabeth Kbler-Ross, questo schema può adattarsi anche alla perdita delle speranze nel capitalismo, che avevano animato la nostra società fino agli orribili anni ’80. Le cinque fasi sono il Rifiuto, la Collera, il Venire a patti, la Depressione e l’Accettazione.
Fatto salvo che questa ideologia è ancora vincente, e che l’Accettazione della perdita, momento cruciale per potere ripartire con nuove speranze, a mio pare non è nemmeno lontanamente agibile da parte della maggioranza, possiamo utilizzare questa chiave di lettura a livello individuale; un’individualità che non deve sconfinare nel soggettivismo, ovvio, ma restare all’interno di quella richiesta dell’oggetto cui faceva riferimento Adorno all’inizio. Occorre cioè capire che “La totalità generale non è più dunque quella del capitalismo, o della produzione della merce: il capitalismo stesso diventa una delle manifestazioni della ragione strumentale” (p. 291). Contro questa ragione strumentale, che riduce l’uomo a oggetto e i bisogni umani a bisogni commerciali/commerciabili dobbiamo opporci.
L’opposizione si realizza attraverso una riproposizione del primato dell’oggetto sul soggetto, in una dimensione di analisi temporale, benché i due siano in pratica indissolubili: “Il soggetto non ha alcuna realtà sostanziale, viene come secondo, emerge solo attraverso il processo di separazione, di superamento dei propri presupposti…(…). Se lo status del soggetto è completamente processuale, questo significa che esso emerge attraverso il fallimento stesso di attualizzare se stesso. (…). Nella riconciliazione tra soggetto e sostanza entrambi i poli perdono quindi la loro solida identità” (p. 327). Cercare, come fa l’ideologia postmodernista vigente, di conciliare queste due polarità mantenendole di fatto indifferenti l’una all’altra significa togliere sostanza ad entrambe; in definitiva il mondo sostenuto da questa ideologia è un mondo vuoto, un mondo costruito sull’assenza, sullo scambio di oggetti di valore simbolico nullo: “…nel postmodernismo la parallasse (è) apertamente ammessa, esibita – e in questo modo, neutralizzata: la tensione antagonista tra diversi punti di vista è appiattita su una pluralità indifferente di punti di vista” (p. 355).
La negazione dell’idea di padrone, la negazione della necessità dell’organizzazione di affermare un primus inter pares, che in breve genera una casta separata che porta a degenerazione il tutto, è l’ovvia conclusione dell’analisi di Zizek. Occorre riaffermare un Reale forte che si opponga ai reali ove ognuno combatte la propria solitaria, e perdente, battaglia. Occorre però integrare Zizek con un’affermazione fondamentale di Jameson che ricorda come, all’interno del postmodernismo, non si possano fare affermazioni che non lo siano, postmoderne, almeno in parte. Ovvero, la richiesta di un ritorno forte al paradigma modernista viene limitata dall’onnipresenza del postmodernismo, che elimina qualunque speranza in una soluzione generale. Il postmodernismo è l’eliminazione del reale come luogo in cui accadono le cose. Dato che non vi è più un luogo deputato allo svolgimento del conflitto, il conflitto stesso e quindi la sua soluzione, ovvero l’accettazione della fine del capitalismo come prospettiva generatrice, prende luogo in una dimensione immaginaria eppure fattiva: l’arte.
“La dimensione globale del capitalismo può solo essere formulata a livello di verità-senza-significato, come il reale del meccanismo del mercato globale. E’ per questo che il famoso motto di Porto Alegre, ‘Un altro mondo è possibile’, è troppo semplicistico; non riesce a rendere il fatto che proprio ora viviamo già sempre meno all’interno di quello che può essere chiamato un mondo, così che il nostro compito non è più solo di sostituire il vecchio mondo con uno nuovo, ma … cosa? Le prime indicazioni ci vengono date dall’arte” (pp. 505-506).
Nell’arte sostiene Zizek – e noi con lui – vi è sia la possibilità di vedere l’altro mondo possibile sia la garanzia di non fare nulla che possa contribuire al mantenimento/duplicazione del mondo esistente: “Cosa dobbiamo fare allora? (…)… in una situazione in cui plus ca change, plus ca reste la meme chose, è meglio non fare nulla che contribuire alla riproduzione dell’ordine esistente” (p. 551). Con questa conclusione pare di tornare alle affermazioni di  Deleuze nei Millepiani.
 Solo nell’arte – puro nulla Reale, puro oggetto simbolico della Realtà, puro luogo di dimora del Corpo senza Organi (CsO) – è possibile vivere, alla fine dei tempi?

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