Recensione: Gernot Bohme, Atmosfere, estasi, messe in scena Christian Marinotti edizioni

Gernot Bohme, Atmosfere, estasi, messe in scena
Christian Marinotti edizioni, pp. 267, euro 26.50
Traduzione Tonino Griffero
     Con estetica oggi si intende lo studio delle opere artistiche, presupponendo che nell’opera d’arte debba abitare il bello; ma, se restiamo all’etimo della parola ed alle intenzione originarie della filosofia, l’estetica mira in tutt’altra direzione; l’estetica nel senso definito sopra nasce nel ‘700. E’ poi anche opinabile che nell’opera d’arte – che è tale in primis perché riceve un’etichetta sociale – debba necessariamente albergare il bello, visto che lo scopo della società è solo rassicurare i suoi utenti e non trovare la verità, che può essere estremamente poco rassicurante. Ma andiamo con ordine, ed esponiamo il significato cui l’autore del presente studio vuole ricondurre il termine.
     L’estetica è lo studio del modo in cui gli oggetti si espongono; questa esposizione degli oggetti comporta una accezione da parte di un soggetto che li percepisce; questa accezione sensibile è il campo di pertinenza dell’estetica secondo l’autore. Questo non significa però disconoscere che l’accezione sensibile è di fatto povera di effetti. Occorre quindi sviluppare un’estetica più ampia che tenga conto della dimensione sensibile e della dimensione conoscitiva della sensazione: “L’opera d’arte è dunque l’oggettivazione di una conoscenza” (pp. 39-40).
     La percezione si realizza in due fasi distinte per quanto riguarda l’oggetto, più una  terza fase che riguarda solo il soggetto. Quando si percepiscono le cose esse sono calate in una situazione specifica che ne definisce le possibilità: “Ripetiamolo: l’oggetto percettivo primario è l’atmosfera o l’atmosferico. Posto che sia corretta, con questa terminologia intendo distinguere altri due fenomeni percettivi. L’atmosferico è qualcosa di più chiaramente separato dall’io, qualcosa che sta piuttosto dalla parte delle cose, o, come in seguito diremo con Herman Schmidz (1978), rientra nella classe delle semicose” (p. 82). Le atmosfere risultano, in quanto quasi oggetti, producibili a partire dagli oggetti stessi e sono, in definitiva, indipendenti da essi dal punto di vista fenomenologico, poiché viviamo in una società in cui lo sviluppo della tecnologia ha permesso la presa di possesso dei meccanismi generatori delle atmosfere. Non a caso la nascita dell’estetica nel senso corrente è databile al ‘700, quando la struttura tecnologica della società inizia ad avanzare con decisione. L’uomo inizia a divenire consapevole dei meccanismi attraverso i quali l’arte si rende effettiva, che non sono i meccanismi necessari a produrla, si badi bene. Se fosse così semplice saremmo sommersi dall’arte che invece resta un bene raro.
     Restando dalla parte dell’oggetto abbiamo il momento dell’estasi: “L’espressione ‘estasi’ va compresa nel senso tecnico del termine, la si introduce cioè appositamente per quello che deve designare, per indicare ciò tramite cui la cose divengono percepibili nella loro presenza. Conformemente al senso letterale del greco estasi, intendendo così l’uscire da sé in senso assolutamente spaziale” (p. 193). Nel momento dell’estasi le cose rendono possibili le loro potenzialità. Questa interpretazione arricchisce la realtà materiale, poiché l’estasi diviene un donarsi delle cose all’uomo, un donarsi che non è limitato dai significati precostituiti della cosa: “…ciò che importa è non interpretare più il carattere come essenza interna ma come essenza che appare. Si tratta qui di intendere in generale le proprietà delle cose non come determinazioni, ossia non come qualcosa che limita e circoscrive le cose, ma, del tutto all’opposto, come estasi, come cioè qualcosa grazie a cui esse fuoriescono da sé e si mostrano” (p. 205).
     Il terzo momento è totalmente dalla parte del soggetto e la trattazione che ne fa Bohme non convince del tutto perché più che ad una teoria estetica le messe-in-scena sembra debbano riguardare una sociologia del consumo dei beni estetici: “Chiunque ha a propria disposizione la conoscenza sensibile e quindi tale conoscenza ha grande importanza nella vita quotidiana. L’estetica serve al perfezionamento di questa conoscenza sensibile, la quale, quando è perfetta, è arte. I criteri di perfezione della conoscenza sensibile – della bellezza – citati da Meier sono pienezza, grandezza, verità, vivacità, certezza. (…) Come si vede, la conoscenza nel campo della sensibilità e la trasmissione del sapere tramite l’arte mettono in gioco l’affettività. L’ultima frase di Meier “suscitare, per quanto concerne l’oggetto, il piacere e il dispiacere che all’oggetto sono dovuti”, significa che nell’arte si deve comunicare anche la partecipazione affettiva all’oggetto, vale a dire la sua approvazione o il suo rifiuto. Ecco perché l’estetica, concepita come teoria della conoscenza sensibile, è poi divenuta una teoria dell’opera d’arte” (p. 46). C’è un motivo specifico per cui dalla teoria della percezione si è passati alla teoria del bello ed è che solo scoraggiando la riflessione sulla percezione, sui dati della percezione, ed inducendo la gente ad affidarsi in maniera irriflessa, istintiva si dice oggi, al mondo così come appare, questo mondo, commerciale e capitalista, ha potuto affermarsi come l’unico possibile. Si è così gradualmente verificata un’estetizzazione del reale. In base ad essa si è privati della veracità del sensibile in ogni fenomeno sociale in cui tale sensibile ha rilevanza: “L’estetizzazione del reale svolge, ad esempio, un ruolo importante come estetizzazione della politica, per usare un’espressione che risale a Walter Benjamin. (…) E’ facile notare, andando oltre Benjamin, che l’estetizzazione della politica soddisfaceva effettivamente dei bisogni, ma bisogni più affettivi che non materiali o politici” (p. 50). Ed eccoci quindi precipitati nella società in cui la politica si preoccupa dei bisogni affettivi (politica della sicurezza) più che di quelli materiali (cibo, casa e lavoro per tutti).
     “Si vuole qui chiamare economia estetica uno stadio di sviluppo del capitalismo in cui al valore d’uso e al valore di scambio se ne aggiunge un terzo che ho chiamato valore di messa-in-scena. (…) E’ legittimo parlare qui di un nuovo tipo di valore, del valore di messa-in-scena, da un lato perché si tratta per così dire della combinazione tra valore d’uso e valore di scambio, dall’altro perché il valore di messa-in-scena ha reso possibile al capitalismo un’inedita dimensione di crescita. (…). La messa-in-scena è la possibilità di incrementare indefinitamente la vita anche al di là della soddisfazione dei bisogni elementari e di schiudere così al capitalismo sempre nuove dimensioni di crescita” (pp. 51-53). Se prendiamo per buona questa affermazione, diventa chiaro che una valutazione estetica in senso etimologico aiuta a sganciarsi dal valore affettivo artificiale di cui sono rivestiti gli oggetti. L’estetica deve quindi allargare la sua sfera d’interesse e uscire dal chiuso delle conventicole degli artisti: “La progressiva estetizzazione del reale rappresenta una sfida per l’estetica, la quale non può riferirsi alla sfera protetta dell’arte ma deve confrontarsi con i prodotti del lavoro estetico in generale e considerare entro questa più ampia sfera anche l’arte, gli artisti e la ricezione dell’arte. La sfida sta nel fornire i concetti e sviluppare le competenza per potersi occupare concretamente dell’estetizzazione del reale, in modo da non subirne il potere o la seduzione” (pp. 53-54)
     Ma come si fa a non subire il valore di messa-in-scena?
     Bohme sembra non cogliere l’impossibilità di un approccio esclusivamente estetico all’inganno perpetrato dai valori di messa-in-scena. Dice ad esempio: “Occorre poi tener conto del fatto che l’ermeneutica e la semiotica non possono essere totalmente accolte da un approccio all’estetica come teoria della percezione sensibile. L’interpretazione dei segni e la comprensione del testo sono sempre anche processi intellettuali e come tali eccedono la sensibilità” (pp. 213-214). E’ però necessario ribadire che occorre eccedere la sensibilità, sia perché la sensibilità è preformata dal sistema educativo del capitalismo avanzato sia perché, all’analisi della logica, la sensibilità è priva di effetto se non diviene percetto, ovvero se non viene tradotta dalla logica. L’estetica trascendentale fornisce i dati, ma solo la logica trascendentale permette di utilizzarli. L’attenzione critica va rivolta ad entrambi i versanti.
     Bohme pare volere tenere il piede in due scarpe, salvare la fenomenologia integrandola con scampoli di marxismo. Ma, salvo questa piccola incertezza più metodologica che contenutistica, Bohme ci trova assolutamente concordi nel richiamarci alla necessità di un’opposizione estetica alle storture del capitalismo, fatto salvo che l’estetico non può limitarsi al sensibile ma deve coinvolgere la ragione nel senso più ampio del termine. L’intento pratico, ché la filosofia è in essenza anche pratica, del libro di Bohme, è ben riassunto nella lunga citazione che segue che chiude il libro, e la recensione: “…l’economia del capitalismo avanzato si presenta come un’economia dello sperpero, cioè come qualcosa di irrazionale se rapportata alla persistenza della miseria nel mondo e alla progressiva distruzione delle condizioni naturali di vita dell’umanità. Senza con ciò misconoscere il fatto che l’economia estetica abbia a che fare con dei bisogni reali degli uomini, bisogni che, da un certo punto di vista, sarebbe meglio definire desideri: l’uomo non vuole solo vivere e sopravvivere, ma anche intensificare la propria vita e incrementare il proprio sentimento vitale. Ma la critica dell’economia politica chiarisce che l’uomo è soggetto a essere sfruttato e a essere mantenuto in condizioni di dipendenza proprio attraverso questi aspetti. E’ appunto specifico del desiderio, quindi del tipo di bisogno su cui si fonda (e anzi deve fondarsi) il capitalismo avanzato, che essi non possano essere soddisfatti, che, anzi, essi suscitino l’aspirazione al loro accrescimento. In una vita tutta orientata alla ricerca del prestigio e della visibilità non esistono fondamentalmente dei limiti. La critica dell’economia politica, in questo caso, aiuterà il singolo a emanciparsi da questa escalation di desideri. Se un tempo la libertà consisteva nella libertà dal bisogno, oggi, nel capitalismo avanzato, consiste piuttosto nell’indipendenza dal superfluo” (p. 261).

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