Recensione: Bill James, Rose rose, Sellerio

Bill James, Rose, rose
Sellerio, pp. 324, euro14
Traduzione Alfonso Geraci
La già nota abilità di Bill James non fa che confermarsi in questo nuovo episodio della serie dei commissari Harpur e Iles; anche se definirli ‘commissari’ non è corretto; ma chi già li conosce capirà e chi ancora non avesse avuto questa fortuna, speriamo abbia modo di farlo alla svelta.
 Questa volta l’interesse della vicenda sta tutto in ciò che è già successo, nel passato che porta all’oggi: il romanzo inizia infatti con la morte di Magan, la moglie di Harpur; e mentre il marito, padre di due deliziose e scafatissime ragazze, piange – neanche tanto – la morte della moglie e si dà da fare per capire cos’è successo, chi ha ucciso la povera Megan nel parcheggio della stazione dei treni del paesino, James ci conduce per mano in tutto quello che è successo a Megan prima della sera della sua morte, e poi la sera stessa, sul treno che la riporta a casa da Londra dove s’è incontrata con il suo amante, il probo Tambo. Che, come si vedrà, non era così probo.
     Lo stile è come sempre in primo piano, la vicenda si svolge senza fatica divertendo molto il lettore, che osserva sbigottito il comportamento disinvolto di Harpur e di tutti i suoi conoscenti. Nessuno è puro e tutti lo sanno. Nonostante questo convivono apparentemente senza sforzo, seguendo regole di comportamento estremamente inglesi, di un Inghilterra che forse non esiste più, oggi, e che forse aveva ancora qualche barlume di speranza di sopravvivere nel ’93, quando il libro fu scritto. La povera Megan, morta alla fine appunto, incarna il tentativo di chi voleva essere onesto di non guardare in faccia quelli che stavano smettendo di esserlo. Un tentativo di comodo, ovvio, ché troppi vantaggi risultano chiudendo gli occhi.
Tutto il mondo è paese, no?

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