Recensione: Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi

Michel Foucault, Sorvegliare e punire

Einaudi, pp. 340, euro 12

traduzione Alcesti Tarchetti

 

Da dove viene la singolare pretesa di rinchiudere per correggere? Con questa domanda scritta sulla copertina del libro, riusciamo già a scorgere il senso del percorso storico che Foucault ci fa fare nelle sue pagine. Infatti, partendo dall’analisi delle modalità antiche di gestione della giustizia, giungiamo a comprendere l’assurdità della struttura prigione; alla fine leggiamo appunto: “Il preteso scacco (del sistema carcerario) non fa allora parte del funzionamento della prigione?” (p. 299).

Prima del ‘700 il potere aveva un modo di essere esercitato piuttosto diretto ed arbitrario: le pene venivano inflitte per mostrare il potere di chi comanda, non c’erano particolari intenti pedagogici sul condannato. “Il supplizio non ristabiliva la giustizia, riattivava il potere” (p. 54).

L’avvicinarsi del secolo dei lumi fa però sorgere nelle menti dei riformatori illuminati richieste di maggiore equità, di un sistema punitivo che serva a qualcosa, che abbia senso. Il senso però, è ovviamente quello della classe dominante, che ritaglia per sé uno spazio di illegalità consentito, lasciando i ceti meno abbienti in balia del potere della Norma. “Appare, attraverso le disciplina, il potere della Norma. (…). Il normale si instaura come principio di coercizione nell’insegnamento con l’introduzione di un’educazione standardizzata e con l’organizzazione delle scuole normali; si instaura nello sforzo di organizzare un corpo medico e un inquadramento ospedaliero nazionale, suscettibile di far funzionare norme generali di sanità; si instaura nella regolamentazione dei procedimenti e dei prodotti industriali” (p. 201).

In altre parole, il delinquente è colui che ha violato la norma, intesa come la regola mediana da rispettare per permettere al sistema di continuare a funzionare. Costui va rieducato, negli intenti dei riformatori, anche se in effetti la prigione ha semplicemente la funzione di contenere, di riorganizzare la delinquenza ad un livello parallelo a quello della legalità. E se si riesce a fare ciò è per il semplice motivo che l’idea della necessità del rispetto delle regole si è piano piano spostata nel corpus di preconcetti propri ad ogni persona. L’invenzione dell’anima serve anche a questo, a creare all’interno di ognuno un ‘luogo’ dal quale il potere possa dominare il corpo.

“Non bisognerebbe dire che l’anima è un’illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti – in modo più generale su coloro che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli scolari, i colonizzati, su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo tutta la loro esistenza. Realtà storica di quest’anima, che, a differenza dell’anima rappresentata dalla teologia cristiana, non nasce fallibile e punibile, ma nasce piuttosto dalle procedure di punizione, di sorveglianza, di castigo, di costrizione. Quest’anima reale e incorporea, non è minimamente sostanza; è l’elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un potere, l’ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo ad un sapere possibile, e il sapere rinnova e rinforza gli effetti del potere. Su questa realtà-riferimento, sono stati costruiti concetti diversi e ritagliati campi di analisi: psiche, soggettività, personalità, coscienza etc..; a partire da essa sono state fatte valere le rivendicazioni morali dell’umanesimo. Ma non bisogna ingannarsi: all’anima, illusione dei teologi, non è stato sostituito un uomo reale, oggetto di sapere, di riflessione filosofica o di intervento tecnico. L’uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui. Un’anima lo abita e lo conduce all’esistenza, che è essa stessa un effetto della signoria che il potere esercita sul corpo. L’anima, effetto e strumento di un’anatomia politica; l’anima, prigione del corpo.” p. 33

L’esistenza di un controllore interno – l’anima – non fa dimenticare tuttavia al potere la necessità di una sorveglianza attiva della parte materiale di ciascuno: il corpo viene rinchiuso in prigione. Ma, se un tempo la prigione era qualcosa di eccezionale e non organizzato, perché il potere con la sua platealità si rinnovava ogni volta che veniva praticato un supplizio, oggi il potere ha cambiato obiettivo. Arriva il Panopticon di Bentham. “Bentham pose il principio che il potere doveva essere visibile e inverificabile” (p. 219).

Questa struttura carceraria ideale – il Panopticon è un cerchio di celle illuminate con al centro la cabina di controllo – riflette i nuovi intenti del potere. Rendere i sottoposti più individuali, e quindi più controllabili, attraverso la loro piena esposizione. Il singolo deviante che commetta un’infrazione alla Norma sa che è sempre passibile d’essere condannato per questo, ricondannato magari, e questa abituazione alla perenne possibilità della condanna-punizione forma una specifica anima: l’anima-prigione di cui si diceva prima.

Attraverso la creazione di questo universale strumento di controllo sociale che è il carcere, la nascente borghesia poneva le basi per un passaggio epocale. Il popolo minuto un tempo rivendicava condizioni di vita migliori attraverso l’appropriazione di diritti abitudinari, che veniva concessa dalla classe dominante. Oggi non è più così: i diritti della classe dominante sono divenuti inviolabili e le rivendicazioni del popolino si riversano sui beni che la classe dominante stessa detiene; “L’illegalismo dei diritti, che assicurava spesso la sopravvivenza dei più poveri, tende, col nuovo status della proprietà, a divenire un illegalismo dei beni. Bisognerà allora punirlo” (p. 93).

Ciò che mi pare emergere con maggiore rilevanza dall’analisi storica di Foucault è la connessione onnipresente di potere e sapere, ovvero il fatto, storicamente illustrato, che non si dà mai il caso di un esercizio del potere non collegato ad un sapere circa l’oggetto d’esercizio, né, per converso, l’acquisizione di un sapere che non provochi un parallelo incremento del potere. “Forse bisogna anche rinunciare a tutta una tradizione che lascia immaginare che un sapere può esistere solo là dove sono sospesi i rapporti di potere e che il sapere non può svilupparsi altro che fuori dalle ingiunzioni del potere, dalle sue esigenze e dai suoi interessi. Forse bisogna rinunciare a credere che il potere rende pazzi e che la rinuncia al potere è una delle condizioni per diventare saggi. Bisogna piuttosto ammettere che il potere produce sapere (e non semplicemente favorendolo perché lo serve o applicandolo perché è utile); che potere e sapere si implicano direttamente l’un l’altro; che non esiste relazione di potere senza correlativa costituzione di un campo di sapere, né di un sapere che non supponga e nello stesso tempo costituisca relazioni di potere. Questi rapporti potere-sapere non devono essere analizzati a partire da un soggetto di conoscenza che sia libero o no in rapporto al sistema di potere, ma bisogna al contrario considerare che il soggetto che conosce, gli oggetti da conoscere e le modalità della conoscenza sono altrettanti effetti di queste implicazioni fondamentali del potere-sapere e delle loro trasformazioni storiche. In breve, non sarebbe l’attività del soggetto di conoscenza a produrre un sapere utile o ostile al potere, ma, a determinare le forme ed i possibili campi della conoscenza sarebbero il potere-sapere e le lotte che lo attraversano e da cui è costituito” (p. 31).

Non esiste quindi un sapere giusto da contrapporre ad un potere ingiusto. In ogni caso il sapere è potere e viceversa. Dato che il sapere disponibile sulla piazza è un sapere ‘normalizzato’, ne deriva che il potere che ciascuno sviluppa a partire da questo sapere è un potere che non violala Norma. Comeogni buon sociologo Foucault cerca di limitare l’intervento della sua personale visione, anche se alla fine si lascia scappare giudizi positivi sull’operato dei fourieristi: “Secondo la loro teoria, se il crimine è un effetto della civiltà, è ugualmente, e per questo fatto stesso, un’arma contro di essa” (p. 319). In altre parole Foucault sostiene la necessità di una violazione volontaria della norma come unico strumento possibile per destabilizzare il potere-sapere di chi comanda: “Di fronte alla disciplina, di fronte alla legge, c’è l’illegalismo fatto valere come un diritto; più che attraverso l’infrazione, è attraverso l’indisciplina che la frattura avviene” (pp. 322-323). Per fare crescere questo illegalismo occorre sviluppare un sapere alternativo.

Il problema sta tutto in queste due parole: sapere alternativo.

Io credo che ciascuno sia dotato di bisogni particolari, non riducibili a beni di consumo. Sono più dei diritti individuali. Ma, dato che nessuno che appartenga all’umanità ‘normale’ ha più diritto a reclamare i propri singolari diritti, dovendosi riconoscere nei diritti universali, e dato che questi diritti non sono nient’altro che il diritto a consumare (diritto normalizzato), a ciascuno non resta altro da fare che annacquare il proprio diritto personale nel diritto universale. L’esistenza si trasforma nella volontaria rinuncia ad una parte di sé. Solo recuperando questa parte individuale e cercando di mantenerla estranea alla logica corrente, mercantile, sarà possibile continuare a “discernere il rumore sordo e prolungato della battaglia” (p. 340). Sordo perché condotto nel piccolo, prolungato perché potenzialmente infinito.

Auguro a tutti di poter conseguire minute e durature vittorie.

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