Recensione: Percival Everett, Ferito

Percival Everett
FERITO
Edizioni Nutrimenti, pp. 236, € 16
Traduzione di Marco Rossari

Ho già avuto modo di tessere le lodi di questo strepitoso scrittore per i suoi primi quattro libri tradotti in Italia, libri talmente belli che dopo averli letti occorre riprendere le misure con la letteratura che si incontra normalmente; dopo questo invece – esso pure, a suo modo, un capolavoro – si è talmente immersi nel brutto che potrebbe sembrare un passo indietro, se ci si fermasse alla lettura immediata. La storia sembra infatti è in sé molto banale. Uno stato del West, un Ranch, il relativo proprietario, John. John è vedovo ma corteggiato dalla bella Morgan, perché in John c’è tutto quello che una donna di mezza età può desiderare; saggezza, pacatezza, agiatezza, un bell’aspetto che non guasta mai, e quel sano istinto animale che piace. John ha anche uno zio, Gus, il brontolone che c’è in ogni storia ambientata nel West, al quale capiterà una bruttissima cosa alla fine, perché la tragedia fa parte della vita.
Il resto della storia, cioè tutta, è difficile da raccontare perché talmente prevedibile da non fornire particolari snodi attorno ai quali svolgere il racconto. Diciamo che all’uccisione di un primo ragazzo, omosessuale, fa seguito una manifestazione per i diritti civili, alla quale interviene il figlio di un amico di John, David. David, finita la manifestazione, litiga con il fidanzato e sceglie di restare alla fattoria con John, dal quale è attratto. Intrecciandosi alle misteriose uccisioni di bestiame che capitano nella zona, la storia di David finisce con il rapimento e la morte per percosse. Zio Gus, che vendica il ragazzo ucciso, dice a John che gli hanno diagnosticato un cancro e senza fare facili scene di cordoglio e dispiacere, il libro si conclude con una specie di Domani è un altro giorno si vedrà, però mesto.
In uno scrittore che ha già dimostrato di possedere gli strumenti per creare dei libri indimenticabili, non mi pare sensato fermarsi ad una prima lettura così scialba. Occorre svelare l’intento dell’autore. Attraverso la normalità, si può pensare abbia voluto dirci Everett, è possibile scorgere tutta la ferocia e l’insensatezza della vita quotidiana. Non c’è bisogno di particolari eventi memorabili per descrivere la vita. La descrizione può anche avere per oggetto la stessa normalità, a patto che, all’interno di essa, vi sia un catalizzatore in grado di scardinarla, di mostrarne l’assurdità, perlomeno a noi lettori.
I tre omicidi che avvengono nel romanzo, sono il frutto dell’odio insensato ed immotivato che spinge le persone le une contro le altre. E questa violenza assurda, che in un film con John Wayne sarebbe tacitamente accettata, in questo caso non lo è perché John, qui, è nero. Il protagonista del romanzo, l’uomo buono, il cowboy della fattoria accanto, l’amico degli indiani, il paziente addestratore di cavalli, è afroamericano, come ci viene specificato subito, a differenza degli altri romanzi di Everett. È dal suo punto di vista che occorre vedere l’intera storia. I due ragazzi omosessuali uccisi sono vittime dell’odio, ma pure l’assassino che alla fine zio Gus giustizierà subirà tale sorte; e allora, potremmo domandarci se c’è una via d’uscita da questo stato di cose, da questo subire costantemente l’odio e le violenze altrui.
Essere feriti, ma rimanere vivi. E non è poco.

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