Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, Einaudi

Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica
Einaudi, pp. 513, euro 22
Traduzione Anna Solmi

L’umanità ha sempre sentito il bisogno di un maestro. Questo desiderio lo si vede riflesso nelle strutture gerarchiche che regolano il vivere civile, perché il maestro, quasi inevitabilmente, finisce per approfittare del rispetto dei discepoli. Costruisce sopra di sé un maestro invisibile, un dio, che lui è in grado di tradurre e da lì segue tutto. Non c’è bisogno di entrare nei dettagli. Chi invece avrebbe la possibilità di essere maestro per molti, rifugge in genere il ruolo. Su questa inconciliabilità (il vero maestro non vuole essere maestro) Nietzsche si è espresso con il suo solito acume. Nietzsche però non ha avuto modo di conoscere Adorno – come nemmeno io sfortunatamente – altrimenti avrebbe dovuto articolare l’aforisma. Nel libro che vi propongo oggi infatti, sono raccolti due corsi tenuti da Adorno all’università di Francoforte nel 1962 e nel 1963 e da questa lettura è difficile non sviluppare il desiderio di imparare da questo saggio.

Adorno parla a braccio su pochi appunti della storia della filosofia, ma lo fa non nel solito modo cui noi, debitori di una tradizione storicista pesante e pedante, siamo abituati. Lo fa adottando il punto di vista di chi la filosofia la conosce davvero e per questo può permettersi di spaziare da Platone a Hegel, da Kant a Epicureo mostrando allo studente/lettore affascinato come la questione terminologica sia fondamentale. In altre parole, i filosofi maggiori avevano al proprio interno, all’interno del proprio sistema, termini spuri, che potrebbero essere fatti rientrare nel campo opposto, ma solo accettando una contrapposizione tra campi filosofici, appunto, che per Adorno però non si dà nella storia della filosofia: “La storia della filosofia si distingue dalla storia di altre discipline a carattere specialistico perché non consiste semplicemente in un progresso nel senso della soluzione univoca dei problemi; la filosofia risolve bensì problemi, ma in quanto li risolve li getta anche via e li dimentica e li sostituisce con altri, in cui essi ricompaiono” (p. 215).

Occorre quindi evitare di cercare nella filosofia la risoluzione dei problemi, ché essa altro non è che la capacità di meglio affrontarli, con la consapevolezza però che mai li si risolverà del tutto. In questo senso la filosofia di Adorno, il materialismo dialettico, si schiera all’opposto della filosofia scientifica di Wittgenstein: “La filosofia è lo sforzo di guarire le ferite che il concetto stesso necessariamente produce. Quando Wittgenstein spiega che bisogna dire solo ciò che può essere detto chiaramente e tacere di quello che non può essere detto chiaramente, le sue parole suonano molto eroiche e hanno anche, se si vuole, una sfumatura mistico-esistenziale che si rivolge con molto successo agli uomini che si trovano nella situazione psicologica contemporanea. Credo peraltro che questa famosa frase di Wittgenstein sia di un’indicibile volgarità intellettuale, poiché ignora ciò che soltanto importa in filosofia (…) dire ciò che è propriamente indicibile” (pp. 50-51).

In altri termini Adorno ci dice che non esiste un campo non analizzabile dalla ragione umana, un settore in cui non sia possibile pervenire all’accordo tra menti razionali: è il presupposto dell’illuminismo. L’epoca moderna ha portato alla rinuncia del piano comune di discorso, per affermare invece la validità della Weltanschauung, ovvero della prospettiva soggettiva sul mondo. Il ruolo della filosofia è invece proprio la lotta contro l’idea stessa di Weltanschauung: “Ho indicato come compito della filosofia la liquidazione della Weltanschauung, e vi ho detto che il maggior beneficio che il vostro pensiero può trarre dall’esercizio filosofico è di essere indotto a rimettersi veramente alla cosa, e non al bisogno ideologico” (p. 115).

Chiudo questa breve nota – che in nessun modo può rendere il piacere di leggere il chiaro pensiero di un saggio – notando come l’opposizione tra cosa e Weltanschauung, tra realtà e soggetto, sia in fondo l’opposizione tra Kant e Hegel, tra il filosofo che interpreta le speranze dell’illuminismo ed il filosofo che invece ritiene il mondo compiuto e, in quanto tale, immodificabile se non dal pensiero: “Se Hegel avesse formulato il suo giudizio su scritti come Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Per la pace perpetua, probabilmente li avrebbe liquidati come vani progetti di miglioramento del mondo nello spirito del secolo XVIII, dal punto di vista apparentemente superiore di colui che è soddisfatto del mondo così com’è. Egli si sentiva nella posizione di colui che è riuscito a comprendere la realtà – se così vogliamo dire – a partire dal principio. E questa realtà, in effetti ha un principio, anche se probabilmente non è quello dello spirito assoluto. Kant, che ha rinunciato a questa costruzione, proprio per questo ha espresso la possibilità di un cambiamento, la possibilità che il mondo diventi diverso da quello che storicamente è, in modo incomparabilmente più energico ed efficace” (pp. 278-279). Se la terminologia filosofica accomuna i due nella corrente dell’idealismo, è chiaro che nello specifico i due sono estremamente differenti. E’ una notazione banale per chi conosce la filosofia, però occorre tener presente che le lezione di Adorno sono rivolte ad un pubblico di giovanissimi. La tendenza dei giovani è, spesso, quella alla semplificazione, alla riduzione del complesso al semplice per poterlo assimilare tutto. In questa opera! zione so no però connessi dei rischi, e Adorno avvisa di questo chi l’ascolta. La correttezza di un maestro si nota anche dall’attenzione all’uso corretto delle parole, anche da parte dei propri alunni.

Avercene.

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