Recensione: Richard Sennett, L’uomo artigiano, Feltrinelli

Richard Sennett, L’uomo artigiano

Feltrinelli, pp. 281, euro 25

Traduzione Adriana Bottini

E’ ormai tramontata l’epoca della speranza per una soluzione collettiva dei problemi, ed il fatto che oggi sia pieno di individui che sostengono che tali soluzioni – parziali – non sono mai avvenute e che quindi non è giusto ora chiederle, mi pare il più chiaro segnale di conferma di questa presa di posizione. Nel suo uso politico questa affermazione serve a delegittimare i diritti acquisiti negli ultimi secoli. Il suo uso filosofico invece, pienamente legittimo, spiega che le soluzioni devono essere individuali. In questo senso il libro di Sennett, esplicitamente orientato in senso pragmatico, è un’ottima raccolta di indicazioni sulla via da seguire per darsi questa soluzione.

Partiamo dalla fine e leggiamo l’apparentemente sconcertante affermazione che c’è a pagina 273: “Chiunque (o quasi) può diventare un bravo artigiano.” Nelle pagine che precedono vari esempi storici di artigiani – liutai e orafi tra gli altri – sono stati presentati ed analizzati, per giungere alla conclusione che solo facendo un lavoro da cui sia possibile ricavare costantemente un sapere che è sempre necessario/nuovo e che comporta di riflesso un’immagine positiva di sé come persona che sa ed il cui sapere è richiesto, è possibile raggiungere la felicità in terra. Credo che molti che fanno un brutto lavoro, o anche un lavoro insignificante – e sono infinita schiera – sappiano bene che se ne facessero uno migliore sarebbero un po’ più felici. Dobbiamo allora dedurne – interrogativa retorica – che la gente è per la più parte stupida e permane in uno stato di catatonica insoddisfazione, oppure che è vigente un sistema sociale che spinge le persone a vivere la catatonia come l’unica situazione possibile, dalla quale si può evadere non con il lavoro ma con il divertimento?

Se diamo per valida la seconda opzione la soluzione sarà quella di opporsi al sistema vigente rifiutando i falsi valori – apparentemente assoluti – che esso ammannisce come gli unici possibili e plausibili; la vita dell’artigiano è in questo senso in profondo contrasto con il paradigma dominante, perché in essa ogni momento diventa parte del tutto, che va controllato e non lascia spazio a scuse e scappatoie. La scusa che viene utilizzata da chi non ha consapevolezza del tutto è che viviamo nell’unico mondo possibile e che dunque la realtà per come ci si presenta èla Verità; la scappatoia consiste nel dirsi che ci è toccato in sorte di vivere una realtà frammentata che è la migliore approssimazione possibile alla totalità. L’accettazione del valore della verità relativa, che E’ verità ed E’ relativa, fa parte del corredo dell’artigiano, di colui che è disponibile ad apprendere dagli errori, che diffida di un lavoro svolto nell’ottica di concluderlo con la perfezione, perché sa che gli è di sprone l’infinita possibilità del miglioramento ( cfr. p. 104 sgg.). Il Candido di Voltaire è in questo senso emblematico della consapevolezza che l’intellettuale ha da sempre avuto per i rischi della perdita di contatto con la realtà: “Il senso del consiglio di Candido è che bisogna preferire ciò che possiamo gestirci personalmente, preferire ciò che è limitato e concreto, cioè umano. Voltaire dice che solo colui che ammette la possibilità di non raggiungere la perfezione può formulare un giudizio realistico sulla vita” (p. 105).

Insomma, il sistema che spinge verso l’astrattezza, che toglie all’individuo la possibilità di controllare tutte le tappe dei processi lavorativi che lo vedono coinvolto è cattivo, si sa; ma se non siamo in un mondo di piccoli artigiani felici e responsabili il motivo è che anche essere una pedina deresponsabilizzata del sistema ha i suoi vantaggi. In primis, quello di non essere costretta a pensare.

Infatti Sennett ci dice che  “il pragmatismo vuole sottolineare il valore del porsi domande di ordine etico nel corso del processo lavorativo; esso contesta l’etica post factum, gli interrogativi che nascono soltanto dopo che le cose sul campo sono fatte” (p. 280). L’artigiano deve essere sempre vigile, sempre consapevole di quello che fa per il semplice motivo che se si continua a fare quello che si è sempre fatto, nulla cambierà mai. L’unico cambiamento può arrivare dalle pause, dalle interruzioni dal lavoro, che l’uomo assume volontariamente, per pensare, e non solo per divertirsi. E’ in questi momenti di pausa che la mente logica può fornire alla mente estetica dei nuovi criteri di comportamento, dai quali soli può derivare la libertà pratica che corrisponde all’astratta libertà del pensiero.

Come ho segnalato all’inizio, la conclusione di Sennett è che l’esperienza dell’artigiano è generalizzabile; questa però è un’indicazione che vale a livello individuale, non generale. Mi pare infatti che la storia dell’uomo, dal rinascimento in avanti, si scontri con indicazioni contrarie alla generalizzazione della consapevolezza; se l’uomo ha lasciato che la sua posizione al centro dell’universo venisse usurpata dalla macchina, ciò è dovuto a motivi strutturali, non casuali e trascurabili, oltre che all’indubbio alleggerimento che la presenza delle macchine ha portato nella vita di tutti. Questo desiderio dell’artigiano, questa immagine romantica dell’uomo che fa tutto da sé non è un desiderio spendibile socialmente, perché si basa sul rifiuto del consumo e sul valore dell’oggetto fatto bene mentre l’attuale socialità, all’opposto, si basa sul consumismo e sull’oggetto da consumare comunque sia fatto, a prescindere da qualsiasi considerazione etica e qualitativa; è un’aspirazione privata, la risposta del romanticismo al fallimento dell’illuminismo (cfr. pag. 120 sgg la figura di John Ruskin) l’unica risposta possibile all’imbarbarimento di una società dove non hanno più senso i desiderata di Dewey, ovvero “un socialismo basato sul miglioramento della qualità dell’esperienza lavorativa degli individui” (p. 273).

In altre parole, è possibile per Sennett e relativamente pochi altri fare questi discorsi sulle virtù dell’artigianato – sicuramente vere in sé – solo perché vi è una moltitudine di persone condannate a non sapere nemmeno alla lontana il senso di un lavoro che trova in se stesso la sua ricompensa – siamo nel bene assoluto di Kant – e non in una cosa banale e triviale come lo stipendio. Se tutte queste persone potessero leggere il Candido e capissero il senso delle parole conclusive, forse cambierebbe qualcosa ma è pur vero che se non tutti le leggono è perché, giunti all’età in cui sarebbe il caso leggerle o meglio, darsi da fare per non avere bisogno di leggerle, sono già parte di una struttura che li ricompensa per ciò a cui rinunciano.

La struttura sociale non può fare a meno della figura dell’artigiano perché dal suo esempio si ricava quell’apparenza di senso che consente a tutti di proseguire; né l’artigiano può fare a meno della società, perché il prodotto del suo lavoro va comunque commercializzato, ché non bisogna confondere il bisogno di artigianato con l’autarchia. Una classica situazione di doppio legame alla quale nemmeno Bateson avrebbe saputo fornire una soluzione, per quanto fosse un ottimo uomo-artigiano.

Un’ulteriore dimostrazione della natura individuale della soluzione.

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