Recensioni: Massimo Fini, Il dio Thoth, Marsilio

Massimo Fini, Il dio Thoth
Marsilio, pp. 188, euro 15
 
Ogni scrittore ha dei precursori, più o meno noti, più o meno nobili. Il protagonista di questo romanzo è un incrocio tra Winston Smith, protagonista di 1984, e John, il selvaggio di Brave New World. Matteo, questo il suo nome, è un pigro funzionario di un mondo futuro in cui tutto, ma proprio tutto, è ridotto all’informazione.
Matteo è un insoddisfatto cronico. Inizia a notare attorno a sé le cose che non funzionano; è testimone di due omicidi ai quali non segue nessuna informazione; sul lavoro le sue tendenze alla non conformità – gli Uninformed sono i paria di questa società, proprio come i Prolet lo erano in 1984 – vengono notate ed attorno a lui si crea il vuoto. Per verificare la possibilità di un senso si rivolge al capo supremo, la Grande Mousse e, in un colloquio che pare proprio quello tra Smith e O’Brian, gli vengono illustrati i principi impliciti della New Era, l’epoca dell’informazione. Uscendo dal colloquio, è testimone di un terzo fatto di sangue – dei giovani stanno per uccidere un barbone – reagisce e commette un omicidio. Incapace di sopportare le conseguenze di questa sua azione, farà come il selvaggio di Huxley: si impiccherà. La sua morte è solo una notizia, non commuove nessuno, le poche domande vengono sommerse dalle notizie nuove; ma proprio questa velocità assunta dall’informazione che cancella la realtà sarà il segnale che il mondo sta per crollare. Il penultimo capitolo finisce con il collasso dell’informazione che si interrompe e con essa il mondo.
Nell’ultimo capitolo Fini si allontana dal classico romanzo distopico ed introduce la possibilità di rinascita. Thoth è un artigiano che nel mondo post distruzione dell’informazione riscoprirà il potere dei segni scritti.
Il romanzo in sé, in quanto a trama, non si segnala né per originalità né per capacità di avvincere i lettori; ciò che conduce la narrazione sono i riferimenti evidenti ad altre storie, ché il riferimento alla società dell’informazione nella quale viviamo mi pare un po’ schematico e non in grado di cogliere la sua essenza, che di fatto è un’assenza. Cioè l’incapacità di distinguere l’esistenza di due realtà, quella dei segni e quella delle cose, interdipendenti ma entrambe reali. Non è vero che il segno ha distrutto la realtà e non mi pare nemmeno una possibilità; l’implosione della nostra società, se mai ci sarà, non capiterà certo perché le informazioni smetteranno di girare.
Le preoccupazioni dei prossimi anni saranno per l’energia da mettere nelle macchine – realtà – non per i bollettini da mandare in agenzia su queste nuove macchine

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