Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri

 

Serge Latouche, L’invenzione dell’economia

Bollati Boringhieri, pp. 224, euro 18.00

Traduzione Fabrizio Grillenzoni

Quando si scrive un libro di economia mi pare naturale deviare un po’ nella sociologia, in quanto il denaro, il rappresentante astratto ed assoluto dei valori nell’epoca contemporanea, è il principale elemento che mantiene in movimento il mondo. L’idea degli economisti contemporanei, aspramente criticato da Latouche, va invece proprio in direzione opposta. Occorre cioè epurare l’economia dei suoi fattori storici per renderla adeguata alla necessaria capacità di previsione del funzionamento dei mercati economici: “Se si vuole estendere il metodo sperimentale al campo sociale, bisogna postulare in mancanza di prove, che quest’ultimo sia strutturato come il campo naturale” (p. 85). Eppure tutti i padri fondatori delle varie correnti economiche avevano anche intenti sociali nello scrivere le loro tesi. In particolare Adam Smith, che viene indicato come il vero capostipite con il suo La ricchezza delle nazioni, pone in esso due tesi contraddittorie. Questo perché per lui non esiste possibile conciliazione delle due posizioni antitetiche che risultano dal normale evolvere della società: “E’ interessante notare che in Smith non esiste un punto intermedio tra una società morale ideale e una società civile di mercanti” (p. 201).

Mandeville, l’autore della nota favola delle api come rappresentazione del giusto modello di vita sociale applicabile anche all’uomo, viene rifiutato da Smith: “La morale dell’egoismo di Mandeville va ripudiata nella vita sociale” (p. 194); ma, poco dopo, sostiene che motivazioni disinteressate non possono essere chiamate in causa a giustificazione delle azioni degli uomini. Non vi sarebbe nulla cioè se non l’interesse personale e concreto in grado di spingere gli uomini all’azione: “Ma – prosegue Smith – anche se la necessaria assistenza non dovesse essere fornita da tali motivi generosi e disinteressati (…) la società, pur essendo meno felice e piacevole, non necessariamente ne risulterebbe dissolta” (p. 198).

Quindi scopo della società non è garantire la felicità dei suoi membri, ma semplicemente permettere a se stessa di continuare a funzionare. Ciascuno si ritrova a vivere in maniera isolata e indipendente dagli altri cercando di realizzare uno scopo che non è però la ricerca della felicità ma il suo sostituto simbolico, la ricerca del denaro.  Occorre a questo punto fare un passo indietro e andare all’inizio del libro prendendo però a prestito, com’è inevitabile, anche idee che provengono da altre fonti.

L’affermazione dello spirito del capitalismo non è che il compimento di un processo iniziato con la formazione delle prime civiltà. Lo sviluppo delle capacità di trasformare la natura ha portato alla disponibilità di prodotti artificiali che potevano essere scambiati per altri prodotti, naturali o artificiali. In base alla specificità culturale del luogo, vi erano alcuni prodotti che non potevano essere scambiati. Sono i prodotti legati alla sfera familiare e/o sacrale. Ma il progredire del commercio ha scalzato via via tutti gli oggetti dalla loro posizione culturalmente definita, rendendoli tutti di fatto scambiabili tra loro. Per comodità, tutti gli oggetti sono equiparati ad un minimo comune denominatore che è il denaro: è la fungibilità generalizzata. In questo modo le culture – che il processo di eliminazione delle distanze spaziali e culturali sta di fatto eliminando – perdono la specificità che la storia e il luogo ha loro dato: “Il capitalismo mondiale ha cercato di adeguarsi alla propria teoria, liquidando i vincoli del sociale e della storia ed emancipandosi da ogni costrizione per realizzare l’autoregolazione” (p. 99).

L’economia è quindi il prodotto che le culture, che andavano dissolvendosi, hanno inventato per rendere possibile la propria conservazione. Se è un’invenzione però, l’economia non è necessaria, non è cioè inscritta nell’ordine naturale delle cose, come sostengono gli economisti del libero mercato. Non è cioè vero che, lasciati a coltivare i propri istinti egoistici gli uomini potranno giungere alla ricchezza per tutti.

Non è nemmeno vero del resto che il libero mercato e l’arricchimento individuale siano il prodotto naturale dell’ideologia: “Le analisi di Max Weber, spesso distorte fino alla caricatura, dimostrano perfettamente che lo sviluppo del capitalismo non è il risultato del protestantesimo. Lutero in particolare si oppone decisamente al mondo mercantile, al denaro e all’interesse. Anche nella sua versione calvinista e puritana, il protestantesimo aspira alla costruzione di una Gerusalemme terrestre, non di un consorzio industriale o di una borsa valori…E’ la torsione dovuta a una secolarizzazione dell’etica puritana che genera lo spirito del capitalismo. L’abbandono del progetto religioso produce una laicizzazione e una trasformazione in senso profano dei valori della rinuncia al godimento e dell’ansia della salvezza a vantaggio del risparmio da investire e del lavoro produttivo” (p. 111).

Fin qui tutto bene, d’accordo. Però, perché l’uomo ha inventato l’economia? Non è forse che l’ha trovata? Inventata da qualcun altro che nessuno ricorda? E, trovandola comoda, l’ha sviluppata? Queste domande retoriche servono per ricordare che la distinzione tra invenzione e scoperta è una delle più difficili nelle scienze. Dato che l’economia mira al modello delle scienze astratte, mi pare che Latouche tacciando la disciplina di essere il frutto di un’invenzione, cada nelle tesi che condanna. L’economia può essere considerata un’invenzione solo a partire da un punto inesistente, un punto prima del quale non c’è economia e dopo del quale c’è solo economia.

Del resto la posizione di Latouche serve solo a mettere il dito sulla piaga, cioè che con un’economia puramente mercantile nessuna forma di socialità condivisa è possibile, ed è quindi in questo senso che prendiamo le sue affermazioni. Prima del libro di Smith, che ha fornito la scappatoia teorica all’egoismo rampante delle classi mercantili, la classe nobiliare in discesa ha cercato di recuperare le fondamenta cristiane della società attraverso gli scritti dei moralisti francesi del ‘500-‘600. Le tesi smithiane non sono che il ribaltamento di queste posizioni, difficilmente conciliabili con il rampante mercantilismo dell’Europa che si affacciava sulla rivoluzione industriale: “La concorrenza (…) viene elevata al rango di provvidenza. Ma questo punto di vista è rivoluzionario soltanto per il suo radicalismo. In realtà non è che il risultato ultimo dell’annosa riflessione dei moralisti sull’equilibrio delle passioni che ha origine con Sant’Agostino. L’atto di forza del Dottor Smith sta nel fatto che a questo punto c’è una sola passione che riunisce e domina tutte le altre: l’interesse. L’interesse smithiano è la versione materiale e quasi monetaria dell’amor proprio (self love) dei moralisti. E’ quantificabile, valutabile, calcolabile, monetizzabile e in sostanza ontologicamente economico (e non a caso)” (p. 207).

L’economia è, in definitiva, il frutto inventato/scoperto dalla razionalità umana che si è liberata delle pastoie moraleggianti di chi aveva tutti gli interessi nel difendere l’ordine esistente. Ha portato ad un nuovo ordine. Per scalzare questo ultimo nato nella schiera di ordinamenti che si sono succeduti nella storia dell’umanità, sempre che lo si giudichi in maniera negativa, occorre inventare-scoprire un nuovo principio che sia eco-nomico, in grado cioè di regolare l’ambiente di vita. In caso contrario si scivolerebbe nell’anarchia in senso bruto: mancanza di regola.

Quale sia questo principio in generale però nessuno lo sa, benché alcuni paiano saperlo in particolare. E’ cioè possibile vivere in un particolare non integralmente economico se si assume il rischio di fornire regole di funzionamento non eterogene. L’applicazione di una regola normativa per l’ambiente di gruppo può essere non numerica, non-economica nel senso attuale, se questo ambiente è limitato e controllabile in toto; ampliandosi le dimensioni dell’ambiente il controllo sfugge e addio nomos, regola. L’economia tradizionale finge che questo inconveniente non ci sia, perché riconoscere questo inconveniente metterebbe un limite alla possibilità di rendere economico il mondo e, facendo leva sul razionale, il numerico, mettere al bando il ragionevole, l’approssimato, il è-quasi-così-ma-va-bene

Quest’ultimo libro di Latouche non è la verità. E’ quasi così, e va bene.

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