Recensioni: Paul Virilio, L’università del disastro, Cortina.

Paul Virilio, L’università del disastro
Cortina, pp. 155, euro 16.00
Traduzione Laura Odello

Un tempo comprendere era l’arte delle arti.
Adesso non basta più, bisogna indovinare.
Baltasar Gracian, cit., p. 119

L’impressione costante leggendo Paul Virilio è quella di un negativismo all’eccesso che però coglie nel segno. Mi spiego meglio. Virilio sembra avere abbandonato del tutto quella fiducia nella ragione che costituisce, secondo me, il punto d’identità forte dell’intellettuale postmoderno che voglia ancora definirsi tale. Solo seguendo i dettami di una ragione in essenza, ovvero qualitativa e quantitativa insieme, è possibile intravedere ancora una possibilità per la nostra Terra; ma il punto dolente sta proprio qui, ovvero nel fatto che la maggior parte dell’intellighentia si è lasciata irretire dai meccanismi del potere, dalle lusinghe del potere, che aveva tutti gli interessi a promuovere una visione della realtà che fosse solo quantitativa, numerica.
Ridurre la realtà a numero, a cifra, digitalizzarla, togliendole quindi quanto di umano – di analogico – deve esserci è funzionale al mantenimento del potere da parte di chi possiede gli strumenti per calcolare. In sostanza Virilio ci dice che l’eccesso di relativizzazione dei fenomeni in funzione della velocità ci ha portato a dubitare del fondamento stesso dei fenomeni, sia esso religioso e scientifico:  “Oggettivo, soggettivo e infine tragittivo, il prisma percettivo si aprirà allora alla quarta dimensione, raddoppiando così l’antica prospettiva dello spazio reale (del visivo) con quella del tempo reale (del televisivo), mentre la nostra percezione oggettiva si distingue ormai nettamente dalla percezione teleoggettiva della varie macchine di visione del mondo. (…). Curiosamente, questa rivoluzione del punto di vista relativistico e quindi della nostra visione del mondo, lungi dall’essere un miglioramento della capacità di giudizio, ha totalmente squalificato la fondamentale importanza del punto fisso a vantaggio di una fuga in avanti di tutti i punti” (p. 66). La crisi dei fondamenti ha conseguenze a largo spettro, non solo su chi lavora per la Verità – intellettuale interprete e non più legislatore – ma soprattutto su chi vive con gli strumenti che il primo gruppo gli fornisce: “Osserviamo ora in azione questa società dell’accelerazione del realismo che non è ancora propriamente una società dell’accesso, quanto dell’ingresso obbligatorio (o quasi) nella comunità virtuale di una realtà di sostituzione che ci priva di quel tatto, di quel contatto fisico e di quell’empatia che sono invece necessari all’intersoggettività comunitaria” (p. 81). Dato che noi umani non siamo più – lo siamo mai stati? – in quanto singoli necessari al funzionamento della struttura, gli strumenti che questa struttura ci fornisce per essere inclusi sono i nostri ceppi e i nostri vincoli. Si giunge così alla fine di questo desolante, ma inevitabile libro, con l’auspicio per la creazione di un’Università del disastro: “E’ qui che si incontra il paradossale progetto di una rifondazione universitaria che dovrebbe prendere a pretesto il fallimento del successo crescente della BIG SCIENCE. Si tratterebbe, dunque, non più della liturgia del pentimento (…), quanto dell’inaugurazione ufficiale di questa UNIVERSITA’ DEL DISASTRO che costituirebbe l’indispensabile MEA CULPA ormai necessario alla credibilità di un sapere che sta per diventare del tutto suicida” (p. 121). E per questo che credo leggere Virilio sia sempre utile. Una ragione eccessivamente positiva è stupida perché non si rende conto del suo essere oggetto del potere; rifiuta così la possibilità di diventare soggetto di un contropotere che è solo possibile là dove la ragione stessa si erige a giudice, rifiutando le facili – positive – categorie numeriche ed economiche fornite in modo preconfezionato da chi dirige, cercando invece di definire al meglio il negativo che sostanzia la realtà ed il cui solo superamento consente di giungere al Reale.
Virilio critica tutto. Il suo dito accusatore si punto soprattutto contro la velocità, legata a filo doppio con la tele-visione, che è la dimensione che meglio definisce l’attuale fase del mondo. Noi veniamo da epoche in cui la tecnologia poteva influire in modo molto limitato sulle velocità disponibili agli spostamenti. Data la relazione esistente tra spazio-tempo e velocità (s=tv) il mutamento di una delle variabili ha comportato un cambiamento di stato delle altre due. Di fatto il tempo è stato annullato – mito televisivo dell’istantaneità degli eventi – e lo spazio è minacciato di subire la medesima sorte. Senonchè la fisicità dello spazio non ne permette l’annullamento; si sta quindi cercando la sua eliminazione in concreto: “Se la dromoscopia (visione della velocità) della corsa dei fenomeni prevale di gran lunga sulla scopia, vale a dire sull’ottica in situ, noi assistiamo, impotenti o quasi, alla messinscena postindustriale di un’energia dell’audiovisibile in cui i ritmi prevalgono definitivamente sulla forma e sullo sfondo. (…). La disintegrazione che qui è chiamata in causa è quella dello spazio-tempo dei fenomeni di una percezione istantanea che condiziona al tempo stesso ogni ragione sperimentale e ogni fede religiosa” (p. 54).
Si auspica la creazione di luogo in cui sia possibile ragionare sulle storture che il razionalismo numerico e meccanico ha comportato per la società tutta: “La dignità dell’uomo – osserva ancora Jankelevitch, consiste nel partecipare della ragione, la sua indegnità invece, nel non lasciarsi trasfigurare da questa ragione: la sua grandezza è miseria e la sua miseria è grandezza” (p. 141).

L’univers(al)ità del disastro.

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