Gunther Anders, L’uomo è antiquato, Bollati

Gunther Anders, L’uomo è antiquato
Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale
Bollati Boringhieri, pp. 302, euro 18
Traduzione Laura Dalla piccola

I filosofi veramente interessanti offrono discorsi sul mondo che non danno adito a molte alternative. Accettati i loro presupposti – che in ogni teoria sono indimostrabili – ci troviamo di fronte ad un universo rigoroso, difficile, in cui tutto funziona alla perfezione e che ha un unico difetto: non è reale.

Non è un difetto da poco, direte voi. Occorre allora aggiungere che solo tenendo presente un modello veramente alternativo all’attuale è possibile mettere in atto comportamenti che, poco a poco, modifichino lo stato delle cose. In assenza di gradualità, l’unica alternativa è la rivoluzione. E’ un bene quindi che ci sia stato un filosofo come Gunther Anders (è morto nel ’92) che, attraverso l’individuazione delle storture indotte dalla nostra organizzazione sociale, abbia avuto la capacità di indicare l’origine del problema.

Il problema principale dell’uomo odierno è il suo rapporto con le macchine. Le macchine sono divenute ontologicamente superiori all’uomo, per la loro natura di prodotto seriale, perfettibile ed in continuo mutamento; è rispetto ad esse che l’uomo è antiquato, e questa percezione è affrontata rincorrendo il mondo delle macchine. Ma in questa rincorsa l’uomo si aliena da se stesso ancor più di quanto non avvenisse con il lavoro: “La descrizione esatta del nostro mondo dei prodotti non è: una somma di singoli pezzi definitivi, bensì: un processo: la nuova produzione quotidiana di pezzi quotidianamente nuovi. Non è dunque affatto determinato questo mondo; piuttosto è indeterminato, aperto, plastico, bramoso di modificarsi ogni giorno, ogni giorno pronto ad adattarsi a nuove situazioni, ogni giorno in procinto di slanciarsi in nuovi compiti; trasformato con il metodo del trial and error si presenta ogni giorno diverso. (…). Insomma: i soggetti della libertà e della mancanza di libertà sono scambiati. Libere sono le cose; mancante di libertà è l’uomo” (pp. 40-41).

Oltre alle duplicazioni materiali degli oggetti, che in fin dei conti sono sempre esistite, si aggiunge oggi la duplicazione per immagine; le stelle del cinema – oggi anche le stelline, anche le nane rosse – hanno un’esistenza multipla e plastica che è rincorsa della maggioranza, che funge da modello per tutti. Lo spostamento del rapporto primario con la realtà materiale ad un rapporto primario con la realtà virtuale si sta gradatamente realizzando. La realtà virtuale è però molto più maneggevole, perché più ingannevole, rispetto a quella materiale; il pubblico sviluppa così un’illusione di familiarità con tutte le cose. Questa illusione è il primo passo verso l’indifferenza, perché nessuno può essere contemporaneamente interessato di tutto: “La familiarizzazione (…) aliena (…) perché l’essere-nel-mondo è strutturato proprio in modo tale che il mondo si scagliona intorno all’uomo in cerchi concentrici più vicini e più lontani; e perché colui a cui tutto è ugualmente vicino, che da tutto è interessato in ugual misura, o è un dio indifferente oppure è un uomo completamente snaturato” (p. 121).

L’immagine è comunque sempre stata centrale nel rapporto uomo-mondo; senonché fino ad un’epoca recente era assodato che dietro alla rappresentazione c’era una cosa-in-sé, mentre oggi la stessa possibilità di una cosa in sé è mal vista. Essa costituirebbe uno scopo non passibile di essere trasformato in mezzo, e dunque non consumabile, non vendibile, non riducibile in merce.

L’eliminazione degli scopi dall’orizzonte dell’azione umana è un ‘dramma antropologico’. Mi sembra questa l’unica locuzione possibile per spiegare la progressiva distruzione della stessa possibilità di un futuro per l’umanità cui assistiamo impotenti da decenni. Precisiamo che la riflessione di Anders era partita da una netta opposizione alla politica atomica dall’America della guerra fredda, problema che mi pare sia ormai scivolato in secondo piano rispetto alla virulenza della macchina produttiva globale. Il punto è che la sensibilità dell’uomo non è connessa alla sua capacità di fare e capire. Detto altrimenti, l’uomo è in grado di compiere azioni delle quali non immagina – o immagina a stento – gli effetti e per le quali non è in grado di registrare il sentimento corrispondente: “…il volume del fare e del pensare si può dilatare ad libitum, mentre la dilatabilità dell’immaginazione è senza confronto minore; e quella del sentire, al paragone, sembra del tutto inesistente” (p. 254). In definitiva noi stiamo costruendo un ambiente per le nostre macchine dal quale noi, sicuramente in quanto singoli ma forse addirittura in quanto specie, non siamo affatto necessari.

Anders lascia alla fine di questo libro la frase che può essere considerata il presupposto pratico di cui dicevo all’inizio: “Abbi solo cose tali, che le massime della loro azione possano diventare anche massime del tuo proprio agire” (p. 279). Detta in termini attuali, occorrerebbe possedere solo cose prodotte localmente che abbiano solo effetti locali.

A questo punto occorre dire che il libro risale al 1956, e che a quei tempi era forse impossibile immaginare dove sarebbe arrivata la tecnologia. La sua visione del destino dell’uomo si è in parte avverata, soprattutto per quanto riguarda il dominio del fantasma (informazione) sulla realtà: “…la quotidiana, incessante ipernutrizione a base di fantasmi che si presentano in veste di mondo ci impedisce di provare fame di interpretazione, di interpretazione personale” (p. 187); ma ciò non toglie che esistono ancora diverse persone ‘antiquate’ che riescono vivere senza rincorrere la macchina, usandola però per quanto essa consente di cogliere un senso; ed è al loro modello di azione che occorre rifarsi nell’attesa che succeda qualcosa, anche se non sappiamo cosa. Questa indeterminatezza è un rimando alla terza parte del libro, dedicata all’analisi di En Attendant Godot di Beckett, apparentemente non connessa al resto. Una riflessione più attenta però mostra come proprio i due antieroi di Beckett siano i migliori rappresentanti di quel nichilismo negativo che è la cifra che meglio definisce la nostra epoca, in cui “è venuta a mancare la possibilità di ricorrere all’elemento tragico, perché dove non c’è mondo non ci può essere collisione con il mondo” (p. 205). Occorre avere uno specchio per avere consapevolezza della condizione umana nell’epoca della pseudo-realtà: “…rimango, dunque aspetto qualcosa” (p. 206).

Smetterà di essere antiquato chi capirà che questo qualcosa, se verrà, non verrà certo dalle macchine.

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