Recensione: M. Benasayag e A. Del Rey, Elogio del conflitto

Miguel Benasayag e Angélique Del Rey
ELOGIO DEL CONFLITTO
Edizioni Feltrinelli, pp. 206, € 16
Traduzione di Federico Leoni

Conflitto e scontro, sebbene lo appaiano, non sono sinonimi dal punto di vista semantico, poiché lo scontro lascia già supporre un vincitore che invece il conflitto non può presupporre. Nello scontro vi sono due parti, l’una contro l’altra, e in genere una delle due prevede l’annientamento dell’altra; il conflitto invece è una situazione “liscia”, per riprendere la terminologia di Deleuze, che non prevede la possibilità di individuare uno spazio quadrettato nel quale collocare i contendenti, perché i contendenti sono attraversati da linee che in parte divergono, ma in parte convergono, e che quindi non portano di necessità alla distruzione dell’altro: “I segmenti e le linee di forza che costituiscono una situazione o un conflitto attraversano in modo indistinto e intricato tutti i suoi protagonisti. (…). Nel momento in cui si comprende questo, ci si mette in condizione di abbandonare in nome del conflitto le trappole di un pensiero dello scontro come annientamento dell’altro” (p. 81).
Lo scontro fa parte ontologicamente del conflitto, ma non lo esaurisce; credere invece, come fa la politica contemporanea, che attraverso lo scontro sia possibile risolvere in modo definitivo i conflitti, è frutto della mistificazione che il potere sta perpetrando da circa tre secoli in maniera paradigmatica. La società del controllo, la nostra società, si è costruita anche polarizzando i conflitti e trasformandoli in scontri. Gli individui, che iniziano a perdere le radici territoriali con l’arrivo dell’industrializzazione, perdono di vista anche l’umanità dell’avversario, lo rendono un punto da individuare e distruggere sulla mappa del potere. La nascente biopolitica usa “l’uomo che non sa o non può agire in assenza di precisi interessi” (p. 173) per assoggettare gli uomini che invece riconoscono ancora nella propria molteplicità la sorgente di interessi genuini.
Seguendo gli scritti di Foucault i nostri autori ricordano la differenza che esiste tra una società in cui il potere si esercita partendo dall’autorità ed una in cui il potere dipende dalla disciplina. Nella seconda, che è la nostra, il potere ha imparato che è meglio controllare il popolo attraverso una serie di norme universali – impersonali – basate sulla legittimità del principio di trasparenza. In base ad esso i comportamenti, le azioni dei cittadini sono costantemente sotto l’occhio tutelare e giudicante dell’autorità, un’autorità che è onnipervasiva perché in larga parte interiorizzata: “nel suo saggio Sulla questione ebraica Marx spiega che la rivoluzione politica ha emancipato l’uomo dalla società feudale al prezzo di una radicale depoliticizzazione della sua vita. Per quanto riguarda la nostra condizione, potremmo parlare piuttosto di un fenomeno di devitalizzazione. (…). Il popolo diventa anzi un popolo solo abbandonando la potenza del suo molteplice e differenziato radicamento, solo fabbricando un uomo astratto: il cittadino, reso ormai disponibile alla rappresentazione politica e all’identificazione con quella rappresentazione: il cittadino che si suppone in grado di decidere per tutti e in nome di tutti, operando da un punto di vista che diventa perciò stesso quello di un universale astratto” (p. 19).
Il cittadino diventa un’unità devitalizzata poiché si trova a muoversi unicamente all’interno dello spazio regolamentato da norme generali non in grado di cogliere la specificità della situazione; per accettare il verdetto di queste norme, occorre rinunciare ad affermare la propria specificità e molteplicità. In questo senso la psicoanalisi, una delle maggiori rivoluzioni intellettuali del ‘900, che prometteva la generazione dell’individuo attraverso la riscoperta del suo unicum conflittuale, si è trasformata in un’enorme macchina concettuale di normalizzazione con il privilegio accordato al principio di realtà: “…la psicoanalisi ha contribuito non poco alla formattazione individualistica della nostra vita” (p. 41).
I nostri sostengono la necessità di una scelta pragmatica per opporsi all’epoca delle passioni tristi: “Colui o colei che avrà ceduto al canto delle sirene della facilità vedrà inevitabilmente diventare la sua vita più che complessa, complicata” (p. 93). Le passioni tristi sono le passioni che Spinoza chiamava in causa per spiegare l’indebolimento del soggetto, che rinuncia ad assumere la responsabilità nel dotare di senso il proprio mondo, che si arrende di fronte alle richieste della struttura cui appartiene. La nostra struttura, consumistica, induce l’individuo, ormai sganciato da qualsiasi legame sociale, a scegliere la via facile per affrontare il mondo ma, in questo modo, lo costringe ad accettare la visione del mondo esistente; detto in altri termini, scompaiono i gruppi sociali che si propongono di “fare mondo”, di rilanciare il vecchio slogan Un Altro Mondo E’ Possibile.
La scomparsa di slogan di questo genere però non è frutto dell’avversione delle plutocratiche forze capitalistiche; “per riprendere un esempio già affrontato, ciò che fa la superiorità del capitalismo rispetto alle utopie del grande cambiamento o dell’eterna fratellanza tra gli uomini è la sua capacità di servirsi della dimensione dello scontro. E’ questa capacità a fare del capitalismo un fenomeno molto più affine al funzionamento reale dei processi sociali di quanto non lo sia una qualsiasi di queste utopie” (p. 100). Se il capitalismo è tanto affine all’intima natura dell’uomo, dobbiamo concludere che non vi è altro mondo oltre a quello in cui viviamo, anche se non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Questo resterà l’unico mondo possibile fino a che la sovrabbondanza materiale sarà percepita come condizione necessaria alla vita, e non come un ostacolo ad essa; di fatto, i gruppi minoritari assumono le categorie del modello dominante e in breve perdono la propria identità e si confondono con le moltitudini di senza terra, senza diritti, senza identità, senza futuro. I “Senza” lottano non per I diritti, ma per il diritto, singolo ed individuale, e quindi non garantiscono nessuna soluzione che valga per tutti. E’ del resto assurdo cercare una soluzione per tutti perché questa soluzione sarebbe norma ed in quanto norma annullerebbe le specificità singolari; solo il cittadino può godere della norma, ma il cittadino è votato alla sconfitta nello scontro con l’istituzione. “Imparare a pensare in assenza di soluzioni: è questa la vera posta in gioco per una società che rifugge la via dell’impegno, della sperimentazione di modi d’agire articolati alle proprie condizioni materiali” (p. 141).
Noi veniamo da un’epoca di speranze, grandi speranze, nelle sorti gloriose e progressive, quando lo sguardo si spingeva lontano, quando l’uomo era l’acrobata sospeso sul filo, che procedeva verso un punto d’arrivo, rischioso ma certo; dovremmo forse accettare una minor certezza nella stessa esistenza del punto d’arrivo, accettare il fatto che siamo costretti ad avanzare nel cattivo infinito. L’ideologia liberista dominante si permette di farci avanzare sul filo fingendo l’esistenza di un punto d’approdo – anche se forse oggi questo non è più nemmeno vero, molti sembra si rendano conto che non c’è senso nel movimento della macchina – proprio perché si tratta di un’ideologia basata sulla speranza. Una speranza però ingannevole, che sfrutta l’inganno di non dire tutta la verità. Allo stesso modo in cui la religione è l’oppio dei popoli, lo scontro è l’oppio che i governi somministrano ai loro popoli.
Elogiamo il conflitto per spezzare le nostre catene.

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