Umberto Galimberti, La casa di Psiche, Feltrinelli

Umberto Galimberti, La casa di Psiche
Feltrinelli, pp. 439, euro 19.50

Non voglio gabellare questo libro per facile perché non lo è, ma se avete una minima conoscenza della psicoanalisi e della storia della filosofia contemporanea e volete allargare i vostri orizzonti, impegnarvi a leggerlo vi arricchirà in misura non indifferente.
Una delle maggiori rivoluzione culturali del ‘900 è stata l’invenzione della psicoanalisi. Come certamente saprete, Freud con il suo Psicopatologia della vita quotidiana diede inizio ad un cambiamento di atteggiamento nei confronti della vita psichica senza precedenti. Almeno all’apparenza, perché la vita psichica intesa da Freud ha fondamenta prevalentemente materiali. Di fatto, Freud è l’erede di una tradizione meccanicistica che risale all’inizio dell’illuminismo, ovvero di una visione della realtà che crede, vuole credere, che tutto sia riducibile ad una serie di connessioni tra causa ed effetto. Quindi Freud sostiene che, individuate le cause del disagio, sarà possibile rimuoverlo. La teoria di Freud è una teoria della guarigione.
Jung si distaccò da Freud per motivi teorici, oltre che personali. In particolare, la visione della guarigione che aveva Jung era diversa da quella sposata da Freud. Laddove Freud vuole individuare cause e spiegazioni, Jung ricerca simboli e senso. Il simbolo è ciò che il linguaggio non riesce ad esaurire, è qualcosa cioè che la coscienza percepisce senza che la parte cosciente ovvero linguistica ovvero socializzata sia in grado di esprimere completamente. L’esclusione di parte del senso che il simbolo porta con sé, esclusione voluta dalle regole tecnologiche su cui è stata costruita la nostra civiltà, fa sì che chi esprime questo surplus di senso rischia l’etichetta di malato di mente, come minimo. Invece, per Jung accettare la trascendenza a cui il simbolo conduce è la via di liberazione dell’uomo.
Diciamo che con Jung il discorso sulla psiche si fa più complesso. L’accusa sovente lanciata alla teoria junghiana di essere nebulosa e confusa è forse da attribuire più alla natura dell’oggetto di studio che ad altro. In parole povere, la psicologia forse, per sua natura intrinseca, non può arrivare al medesimo grado di oggettività delle scienze naturali. Quando invece si accetta il paradigma scientifico tout court si ottengono psicologie conformanti come il comportamentismo ed il cognitivismo, “il cui invito esplicito è di essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all’apparato” (p. 170).
In Jung invece l’invito ad essere se stessi è ben presente, anche se le ricette esoteriche che propone non paiono convincenti. Il punto è che Jung ha cercato di dare alla sua teoria uno sguardo più filosofico, umanistico, il che l’ha posto in cattiva luce presso i fedeli della scuola freudiana i quali, più che un senso, cercano risposte. Invece, sostiene Galimberti, noi dobbiamo andare alla ricerca di un senso nella vita e per questo dobbiamo fare uso della filosofia.
La filosofia greca propone una visione del mondo nettamente opposta a quella spacciata dalla psicoanalisi. Il greco ha ben presente l’insanabile contrasto tra io singolo e regole sociali, ma non ritiene possibile che una delle due polarità abbia la meglio sull’altra; per questo, l’uomo greco è tragico. Ovvero, è un individuo costantemente a metà tra forze che agiscono su di lui per attrarlo verso di loro, e che costantemente sa che lo spostarsi verso uno dei due poli non è la soluzione: “Concedersi incondizionatamente al desiderio o rassegnarsi perdutamente al limite significa disabitare la condizione umana” (p. 375).
Attraverso la filosofia fenomenologica, applicata in campo psichiatrico grazie ai lavori di Jaspers, ci si può muovere verso la condizione umana. Una condizione umana che è riappropriazione del proprio sapere, inteso come possibile orizzonte di senso della vita, al di là di quanto impone la tecnica.
Diamo uno sguardo d’insieme alla storia della filosofia, che è poi la storia dell’uomo, e cerchiamo di individuarne delle tappe fondamentali. In un primo tempo, l’uomo s’è posto una domanda circa l’origine della realtà. Era un uomo di basso livello tecnologico, ancora molto consapevole di sé e di quelle che erano le proprie abilità ed i propri limiti. Con il passare del tempo, l’origine della realtà è diventata sempre più remota, sempre più inconoscibile, sempre più meta-fisica. A questo punto, la realtà coincide con la rappresentazione che di essa l’uomo si dà. Questa rappresentazione è mediata dagli strumenti tecnologici a disposizione. La concezione che l’uomo ha dell’oggetto reale non è più – non è mai stata, ma ora se ne ha consapevolezza – oggettiva ma soggettiva. L’uomo smette di considerare il reale come fondativo della sua esperienza: inizia l’epoca dell’immanentismo. E proprio qui sta l’errore, perché l’uomo smette di vedere le due dimensioni – oggetto e soggetto, realtà e rappresentazione – unite ma irriducibili, credendo vi sia solo la dimensione rappresentativa. Questa però è mediata dalla componente tecnologica della cultura e quindi l’uomo perde di vista ogni fondamento nel reale. “L’equivoco è, secondo Jaspers, l’aver pensato l’essere sul modello dell’oggetto presente al soggetto” (p. 323).
Dato che l’oggetto viene rappresentato tramite parole (il modo in cui l’essere diviene presente al soggetto), questo oggetto è un oggetto semplificato, che non esaurisce la realtà. Per avvicinare la realtà, occorre adottare una filosofia del fenomeno per come è percepito dal soggetto, attraverso l’individuazione delle personali categorie trascendentali – in senso kantiano – che mediano la formazione della rappresentazione. “Perché il passato passi e il futuro avvenga, perché qualcosa muti a livello biografico bisogna operare a livello trascendentale, dove non si incontrano i contenuti del mondo, a cui sono riconducibili anche i traumi di cui parla la psicoanalisi, ma la forma con cui questi si presentano” (p. 314).
A questo punto però, mi sembra necessario sottolineare il limite della fenomenologia. Queste categorie trascendentali soggettive non sono reperibili con l’analisi, ma vanno assunte aprioristicamente, come tutte le categorie trascendentali. Ricordo che in Kant le categorie trascendentali sono quelle che danno significato all’esperienza pur essendo acquisite prima dell’esperienza: sono appunto forme.
Si giustifica quindi un superamento della psicoanalisi classicamente intesa, ovvero come luogo di cura della psiche ovvero di sua riparazione, per il semplice fatto che il luogo di riparazione non è raggiungibile. Ogni rappresentazione rimanda ad un’altra. Come riconosce lo stesso Galimberti “Tutto ciò che accade all’uomo ha un senso conoscibile attraverso un’interpretazione infinita. Ma, osserva Jaspers, quando l’interpretazione trascura i criteri del vero e del falso, traducendo ogni sintomo in simbolo che può essere interpretato all’infinito, l’interpretazione cessa di essere conoscibilità” (p. 289).
La vera questione sono i criteri del vero e del falso. Se non vi è più un fondamento, queste due nozioni sfuggono; e non sarà certo la catena infinita di interpretanti messa in atto dalle varie scuole psicoanalitiche che permetterà di risolvere il disagio di vivere. Poniamo quindi noi stessi, novelli pragmaticisti, la categoria trascendentale, che è la categoria del tragico, inteso in senso greco.
Occorre passare ad una filosofia dell’anima che, attraverso la riscoperta della tragicità greca, possa insegnare al singolo il senso del proprio limite, che nessuna tecnologia potrà travalicare: “La pratica filosofica vuole recuperare questa saggezza greca. Essa guarda l’uomo non come colpevole (cristianesimo) o malato (psicoanalisi), ma in modo più radicale come tragico. Di conseguenza non chiede la salvezza o la guarigione, ma il contenimento del tragico, attraverso le vie della conoscenza e della virtù, qui intesa come coraggio di vivere, nonostante tutte le avversità, grazie al governo di sé, secondo misura (katà métron)” (p. 26).
Non c’è altro da dire, the show must go on: waiting for Godot, ovviamente.

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